La presa di Ancona
OPERAZIONI BELLICHE NEL PORTO DI ANCONA
Soppressa la Repubblica Romana ad opera dell’esercito francese, lo Stato Pontificio restaurato si trovava ad avere le sue uniche due basi navali a Civitavecchia e ad Ancona. La prima aveva il compito di tenere aperti i canali di comunicazione con la Francia, Ancona quelli con il potente alleato: l’Austria. Al momento della invasione dell’Umbria e delle Marche nel 1860, l’obiettivo delle forze Sarde al comando del Generale Fanti era la conquista di Ancona, con il concorso della flotta sarda al comando del Contrammiraglio Persano.
Divise le forze terrestri in due Corpi d’armata, uno destinato in Umbria (Morozzo della Rocca) l’altro nelle Marche (Cialdini), Fanti cercò di conquistare la città dorica nel minor tempo possibile. Già il 18 settembre 1860, giorno della battaglia di Castelfidardo, la flotta diede il suo primo contributo bombardando in forze la città, non permettendo così alla guarnigione pontificia di uscire a dar man forte alle forze mobili del De la Moriciere impegnate a Colle Montoro.
Subito dopo il 18 settembre iniziarono le operazioni per l’assedio di Ancona.
Il Corpo d’Armata operante in Umbria aveva attraversato gli Appennini e si era diretto sulla città dorica. Il 24 settembre Fanti lanciò l’attacco alla città che cadde anche per il contributo della flotta condotta da Persano.
Le operazioni navali contro Ancona
L’11 settembre 1860 al momento della dichiarazione di guerra, il porto di Ancona fu chiuso da una catena che andava dalla Lanterna al Lazzaretto, sorretta da sei pontoni, ognuno recante un cannone, integrati nella difesa a mare della piazzaforte. Tale difesa era incentrata su due punti fondamentali: la Lanterna, appunto, sul lato destro e il Lazzaretto sul lato sinistro. Questi due poli erano collegati tra loro da una cinta muraria ora scomparsa.
Al Lazzaretto era posta una batteria da tre pezzi del calibro liscio da 24 libbre (peso delle munizioni). La Lanterna era organizzata come centro di fuoco (secondo la descrizione che ne fa il Fedecostante nella sua opera “II contributo della Marina Militare Italiana alla presa di Ancona del settembre 1860”) su tre fronti e su due piani: il piano inferiore era casemattato, quello superiore era in barbetta. La casematta era armata di nove cannoni, lungo le sue tre linee di fuoco, la batteria in barbetta ne allineava tre. Questi piani erano messi in postazione a ridosso della massiccia torre, la Lanterna appunto, che aveva il difetto, nel caso fosse stata colpita dal fuoco avversario, di ferire i difensori con le schegge di pietra che da essa potevano distaccarsi. La batteria della Lanterna era al comando del tenente austriaco West-Minsthal così come erano austriaci tutti í cannoni, dono del1’imperatore Francesco Giuseppe al Papa Pio IX.
II Capitano Gizzi, che già aveva prestato servizio nella Imperial Marina Austriaca, aveva il comando di tutta la difesa marittima, difesa che contava in totale, comprese le batterie della Lanterna e del Lazzaretto, ventisette bocche di fuoco, di cui sei pezzi nei salienti di S. Agostino e di S. Lucia, tutte del calibro liscio da ventiquattro libbre ad eccezione di quattro che erano del calibro liscio da diciotto. Iniziato l’assedio da parte della flotta sarda, colpi di mano furono effettuati per far saltare la catena e aprire e rendere agibile il porto. II 25 settembre all’una e mezzo di notte due barche messe in mare dalla “Maria Adelaide”, ammiraglia della flotta, tentarono l’impresa. Avvistate dai difensori furono costrette a riprendere il largo. La sera successiva lo stesso Persano organizzò una seconda spedizione che al pari della prima non riuscì.
Rientrato a bordo dopo la spedizione notturna, il Persano si convinse che i colpi di mano non potevano essere più attuabili e che quindi occorreva un attacco in massa, tanto più che cominciando a scarseggiare il carbone, la permanenza della flotta avanti Ancona diventava problematica.
Il Persano convocò il suo Stato Maggiore e i comandanti delle unità per discutere il da farsi e la mattina del 28 settembre il consiglio si riunì a bordo della ammiraglia.
Invitati tutti i partecipanti ad esporre le proprie idee, i più erano dell’opinione che si dovesse desistere da un attacco frontale per vari motivi; sarebbe stato illogico, in relazione al risultato usare l’intera forza della marina sarda dal momento che Ancona era ormai accerchiata dalle truppe di terra ed era facile prevedere che presto sarebbe caduta. Inoltre se una nave avesse riportato una seria avaria, doveva essere affondata in quanto non vi erano, in Adriatico porti amici o neutrali che potessero ricoverarla.
Un eventuale insuccesso, oltre a far cadere sulla marina l’accusa di non aver contribuito alla causa nazionale, avrebbe avvantaggiato l’Austria nel caso avesse deciso di intervenire nel conflitto in corso. In sostanza troppo rischio rapportato a quello che si otteneva. Solo il comandante del Vittorio Emanuele, Albini, era contrario a queste idee: la marina doveva attaccare e non attendere gli eventi: se l’attacco fosse riuscito, Ancona sarebbe caduta all’istante e la campagna delle Marche si sarebbe risolta quel giorno stesso. Persano valutò attentamente i pro e i contro ed alla fine decise per l’attacco e assumendosi ogni responsabilità, ordinò il forzamento in massa del porto quel giorno stesso.
Quando già i comandanti erano rientrati a bordo delle loro navi e ci si apprestava all’azione, venne ordinato dal Quartier Generale di mandare urgentemente una fregata a controbattere il fuoco nemico, che stava impegnando seriamente i bersaglieri del Cialdini a Porta Pia. Questi ultimi il 27 settembre resero inattivi i tre cannoni posti nel Lazzaretto, privando così la difesa del suo cardine sinistro, al momento dell’attacco della flotta sarda.
Alle ore 13 il “Vittorio Emanuele” (comandante G.B. Albini) il “Governolo”, (com. Marchese d’Alba) e la “Costituzione” (com. Wright) mossero alla volta del porto. Contro di esse spararono tutti i pezzi della piazzaforte. La difesa aveva intuito, dalle manovre delle navi, che l’attacco generale era stato lanciato. Il vento soffiava da scirocco e andava aumentando di intensità. Il “Governolo” rispose al fuoco della piazza per primo seguito dal “Vittorio Emanuele” e dal “Costituzione”. II tiro delle navi, concentrato sulla Lanterna, fu talmente efficace che in breve tempo la batteria in barbetta della Lanterna era smantellata e gli artiglieri che la servivano dovettero rifugiarsi sulla sottostante casematta. Fanti, che seguiva l’azione da Montagnolo, ritenne opportuno congratularsi con Persano, inviando un messaggio di felicitazioni a mezzo telegrafo.
La posizione assunta dalle navi attaccanti era felice: la “Vittorio Emanuele”, si era posta a 660 metri dalla Lanterna, mentre il “Govenolo” e la “Costituzione” a 500 metri, in modo da colpire anche le altre opere di difesa poste sul molo. L’aumentare della forza del vento provocò difficoltà alle navi attaccanti. Ne fu vittima il “Vittorio Emanuele” che, nell’intento di presentare la fiancata al nemico e sfruttare al massimo la sua artiglieria, fu spinto fuori tiro non avendo saldi ancoraggi. Persano lo rimpiazzò con il “Carlo Alberto” (comandato dal Cav. Galli della Manitica) mentre ordinava alla “Maria Adelaide” di tenersi pronta ad entrare in azione.
Intanto la “Costituzione” e il “Governolo” continuavano il loro tiro mettendo sempre più in difficoltà i difensori. La posizione assunta da queste due navi fu possibile in quanto il polo sinistro, ovvero i cannoni posti nel Lazzaretto erano stati resi inattivi. II “Carlo Alberto” si portò a 500 metri dalla Lanterna e secondo la descrizione del Fedecostante, che mostra una conoscenza della tecnica marinara molto profonda, “con un pennello da prora e uno da poppa si mise in uno degli angoli morti della batteria e mediante l’alare e l’allascare a vicenda dei suoi tonneggi e tenendo il gran fiocco e la randa in vela si mantenne sempre in posizione”. Verificata con un tiro di prora la distanza voluta, aprì contro la batteria della Lanterna un fuoco rapido e continuo di eccezionale potenza. L’attacco della flotta stava già dando i suoi frutti: quasi semidistrutta la batteria della Lanterna, affondati due pontoni che reggevano la catena ed altre quattro imbarcazioni minori. In questa fase cadeva il comandante della batteria della Lanterna Ten. Westminsthal, sostituito dal Ten. Verbex. II “Vittorio Emanuele” aveva nel frattempo recuperato la sua linea. Avendo Persano mandato complimenti per l’azione in corso ai comandanti delle navi che stavano impegnando il nemico, l’Albini, escluso da questo elogio e forse punto nel suo orgoglio personale, chiese ed ottenne libertà di manovra per la sua nave.
Ottenutala il “Vittorio Emanuele” puntò decisamente la prora sulla catena che chiudeva il porto. A 50 metri da essa, virò di bordo e defilando di fronte alla batteria della Lanterna, vi scaricò contro tutti i suoi pezzi.
L’azione, non comune per quel tempo, ebbe un esito sconvolgente. II “Vittorio Emanuele” aveva iniziato di nuovo a virare quando tutta la costruzione della Lanterna saltò in aria in un boato assordante. II Gen. De La Moriciere, comandante in capo delle forze papali ad Ancona, sostenne che la Lanterna saltò in aria in quando una palla del “Vittorio Emanuele” centrò il magazzino delle polveri. Altri sostennero che a seguito della bordata del Vittorio Emanuele, tutti gli artiglieri validi fuggirono dalla casematta abbandonando i loro compagni feriti. Gli ufficiali, non potendo lasciare i molti uomini rimasti feriti nella batteria fecero in modo di costringere i fuggiaschi a rientrare nella casematta ed almeno salvare i compagni feriti. Nella confusione avendo cessato in ogni caso la batteria della Lanterna di essere uno strumento di difesa, il fuoco che divampava ovunque in breve raggiunse il magazzino delle polveri facendo saltare tutto in aria. La brevità del tempo intercorso tra la bordata del Vittorio Emanuele e l’esplosione della Lanterna non permette di avvalorare l’una o l’altra versione. In ogni caso l’azione del Vittorio Emanuele fu determinante e decisiva. Quando la polvere si dissolse, si constatò che della Lanterna era rimasto solamente un cumulo di macerie. Crollando questa crollarono anche i sostegni della catena che chiudeva il porto. Si aprì così una breccia di 50 metri nella cinta fortificata a mare, che non permise di resistere oltre. Terminata l’azione della flotta verso le 16 pomeridiane, il De La Moriciere constatò che ogni ulteriore resistenza era vana. Alle 17 la cittadella alzò il vessillo di resa imitata nel giro di mezzora da tutti gli altri forti. Stando alla relazione del De La Moriciere ed all’evolversi dei fatti, fu l’azione della marina che decise la resa di Ancona nel settembre del 1860. Azione che, condotta arditamente e con perizia, costò alla Dorica un suo monumento caratteristico. L’unico che subì danni irreparabili durante tutto l’assedio del settembre del 1860. Di esso, come detto, non rimane che il basamento, la parte meno caratteristica. Le navi che parteciparono all’assedio di Ancona al comando del Contrammiraglio Carlo Persano, erano la “Maria Adelaide” (38 cannoni, 2255 cavalli vapore, 600 uomini), la “Vittorio Emanuele” (52 cannoni, 1848 cavalli vapore, 556 uomini) la “Carlo Alberto” (51 cannoni, 400 cavalli vapore, 365 uomini) il “Governolo (10 cannoni, 80 cavalli vapore, 81 uomini). Il 18 settembre si aggiunse a questa divisione la fregata (a vela) “S. Michele” (42 cannoni, 525 uomini) ed i piroscafi ad elica “Dora” (2 cannoni, 220 cavalli vapore, 50 uomini) e “Tanaro” (2 cannoni, 125 cavalli vapore, 50 uomini). La Marina sarda aveva nel 1860 solamente 23 navi in totale compresa la flottiglia del Garda per un totale di 375 cannoni imbarcati. La divisione che operò davanti Ancona era pertanto il meglio che il Regno di Sardegna disponeva in quel momento.
Ancona dopo il 1860
Vittorio Emanuele II sbarcava ad Ancona il 3 ottobre 1860, proveniente da Ravenna. Nella città assunse il comando delle truppe del IV e V Corpo d’armata che in venti giorni avevano conquistato le Marche e 1′ Umbria. Alla testa di queste truppe si diresse nel meridione incontro a Garibaldi, già vincitore al Volturno. Si era alle ultime battute del processo che avrebbe portato all’unità d’Italia.
Ancona, da quei giorni, assunse e mantenne fino al 1866 un ruolo di primo piano nel contesto della sicurezza del Paese. Il Regno d’Italia, appena costituito, aveva da affrontare e possibilmente risolvere, numerosi problemi tra cui fondamentale quello della sicurezza. Le minacce erano consistenti e nulla era dato per acquisito nel contesto europeo.
Serpeggiava a Vienna e nelle corti di ispirazione asburgica un desiderio mal represso di rivincita verso il Piemonte. Il desiderio di una nuova Novara animava la diplomazia austriaca e in molti , in Europa, non davano per nulla scontato che quanto era accaduto nel 1859-60 dovesse rimanere definitivo. Il diffondersi nel meridione del “brigantaggio”, ovvero la guerriglia filo borbonica, le varie difficoltà nel1′ Italia centrale, i problemi economici del nord, il problema del Veneto e di Roma stessa erano considerati tutti focolai tali da poter giustificare un nuovo rimescolamento di carte, questa volta in senso asburgico.
Punto di forza di fronte a questa minaccia per l’ultimo governo Cavour e per quelli a lui succedutesi, erano le Forze Armate. In esse erano riposte tutte le speranze di vita del giovane Regno d’Italia. Il loro rafforzamento e potenziamento rappresentò la migliore garanzia di sopravvivenza. Risolto bene o male il problema dell’esercito garibaldino, lasciate le truppe celeri e mobili a fronteggiare il brigantaggio, il grosso dell’esercito fu schierato sul confine con il Veneto. Le forze navali,ancora al comando del Persano, furono disposte, coerentemente, in Adriatico tra le basi di Taranto e Ancona. Il compito delle forze di mare non era semplice: in caso di guerra avrebbero dovuto affrontare la potente flotta austriaca che si appoggiava a Venezia, Trieste, Pola, Fiume e nei porti della costa dalmata. L’Austria aveva quindi la possibilità di scegliere la base da cui partire per una eventuale azione offensiva; la flotta italiana invece poteva contare solo su Ancona, essendo Taranto troppo lontano. Ecco quindi il ruolo fondamentale che la città dorica ebbe in quegli anni. Questo ruolo si esplicò completamente allo scoppio della III guerra di indipendenza. Dopo lo scontro navale di Lissa, una pagina poco piacevolmente ricordata dai Marinai e la fine della guerra, venne meno anche il ruolo primario di Ancona come base navale, assunto da Venezia che ritornerà a dominare l’Adriatico pur nel contesto degli anni di fine secolo.