Il 18 settembre 1860
I precedenti
Nei primi di settembre del 1860, due corpi d’armata italiani (IV° e V°) si raccoglievano sui confini settentrionali delle provincie rimaste allo Stato della Chiesa dopo i moti del 1859: il IV° (luogotenente generale Cialdini) lungo la costiera adriatica accennava alle Marche; il V° (luogotenente generale Della Rocca) nella provincia di Arezzo, con truppe avanzate in Val Tiberina, minacciava l’Umbria. In tutto circa 32 mila uomini, con un’ottantina di pezzi da campagna. L’Appennino separava queste masse. Il generale Fanti, ministro della guerra, ebbe il comando in capo dei due corpi che si denominarono ” Armata di operazione dell’ Umbria e delle Marche” .
A fianco alle vecchie truppe sarde vi erano soldati giovani, volontari, accorsi a dar vita a quel meraviglioso organismo di guerra formato tra la fine della campagna del 1859 ed il Marzo del 1860, che fu l’esercito della, Lega, dell’Italia centrale: ai difetti inevitabili in codeste milizie, ordinate da pochi mesi appena, suppliva un fortissimo spirito di patriottismo e di emulazione. Il piccolo esercito pontificio doveva in tutto ascendere a circa 23 mila uomini. In realtà nel settembre del 1860 non ne contava, più di 20 mila.
Erano milizie assoldate straniere ed indigene, le prime composte in massima parte di svizzeri, francesi ed austriaci: di esse non si potevano adoperare in guerra campale più di 16 mila uomini con 30 cannoni. Le rimanenti truppe stavano sparpagliate nei presidi; in Roma teneva guarnigione la divisione francese Goyon. Aveva accettato il supremo comando delle milizie papali, fin dall’Aprile di quell’anno, il generale francese La Moricière, veterano delle guerre d’Africa e noto in ItaIia, dal 1848, per aver rifiutato allora il comando dell’esercito sardo prima dello Chrzanowski. Nella fiducia di dover fronteggiare moti interni piuttosto che far guerra contro truppe regolari (in quest’ultimo caso confidava nei soccorsi di Francia e di Austria), il generale La Moricière aveva suddivisa la sua piccola armata in tre brigate mobili, di circa 3000 uomini ognuna, con una riserva.
La brigata del generale Pimodan ai primi di settembre era attorno a Terni; quella del generale Schmid nelle adiacenze di Perugia; quella del generale De Courten presso Macerata; la riserva infine (colonnello Cropt) a Spoleto. Tale era la situazione il 10 settembre 1860. Alla notizia dell’appressarsi delle truppe nostre, Urbino, il MontefeItro, Fossombrone, Pergola, Pesaro, Monteleone d’Orvieto, Ficulle e Città della Pieve insorsero contro il dominio papale. Il 9 settembre il generale Fanti spediva al generale La Moricière l’avviso di aver avuto ordine dal Re di occupare tosto le Marche e l’Umbria, qualora le truppe pontificie avessero usato le armi nel reprimere i moti popolari.
Il dì appresso il conte della Minerva consegnava al cardinale Antonelli in Roma una nota del conte di Cavour che conteneva la medesima intimazione: l’AntonelIi rispose con un rifiuto. Il giorno 11 le truppe pontificie della brigata De Courten, partite da Macerata fino dal 9 alla volta delle terre del Montefteltro, generosamente sollevatesi, reprimevano a forza i moti di Fossombrone: la brigata Schmid si disponeva , far opera di reazione verso Città. della Pieve ed Orvieto. Ma nello stesso mattino dell’11 le truppe sarde passavano la frontiera pontificia. Il IV° Corpo si avanzò con due delle sue divisioni (4a e 7a ) per la strada del litorale adriatico, da Rimini a Pesaro, e con l’altra (13a), per la strada più interna degli Appennini, da, Saludecio ad Urbino. Il V° corpo d’armata si avanzò in Val Tiberina da Arezzo su Città di Castello. Il generale in capo dei pontifici aveva disegnato dapprima di disporsi tra Spoleto e Terni, per operare di là , con le forze riunite, contro le colonne separate degli italiani che procedevano dalla costiera adriatica e dalla Val Tiberina; ma fidando nei soccorsi d’Austria e di Francia, e ritenendo che le retrovie, il dominio di S. Pietro e la Comarca fossero al sicuro sotto il presidio delle armi francesi, decise da ultimo di appoggiarsi alla piazza di Ancona, in attesa degli sperati soccorsi stranieri.
Il generale Fanti, disponendo di una considerevole superiorità numerica sull’ avversario, risolvette, da sua parte, di stringere il nemico tra i due corpi d’armata operanti dall’ Adriatico e dalla Valle Tiberina, staccandolo ad un tempo da Ancona e da Terni, ed assicurando, con il presidio delle armi nostre, le regioni che si erano sollevate sull’uno e sull’altro dei versanti dell’Appennino.
L’11 settembre il generale Cialdini, con la 4a e la 7a divisione e con la speciale riserva del IV° corpo d’armata che si era costituita, s’avanzò in direzione di Pesaro. Mandò innanzi, come avanguardia, a circondare Pesaro da sud, il generale Griffini con i reggimenti Lancieri di Novara e di Vittorio Emanuele, un battaglione di bersaglieri e due pezzi rigati. Vi stava a difesa il colonnello Zappi con circa 1200 uomini. Giunto il grosso della colonna, la città fu espugnata ed occupata nello stesso pomeriggio da tre battaglioni di bersaglieri, con artiglieria.
Il presidio pontificio continuò a difendersi nel castello fino alla mattina seguente; poi si arrese a discrezione. In modo consimile, senza incontrare grande resistenza, il generale Leotardi con le prime truppe della sua divisione (7a) e con il reggimento Lancieri di Milano s’impadronì di Fano, difesa, da circa 300 pontifici. Il 13 lo stesso generale Leotardi, giunto a Senigallia, ebbe notizie di una colonna nemica che teneva, i ponti a sud-ovest della città, e si avanzò subito contro di essa per disperderla. Era la retroguardia della, brigata mobile De Courten, la quale, nel primo avviso dell’avanzata degli italiani, si era ripiegata da Fossombrone alla volta di Senigallia ed Ancona, lasciando indietro alcuni battaglioni a, distanza di una tappa. Lo scontro avvenne sulle colline di S. Silvestro presso Senigallia. Vi combatté con molto onore il reggimento Lancieri di Milano. La sera troncò l’inseguimento.
Parve ora urgente al generale Cialdini di costringere le truppe pontificie a rinchiudersi in Ancona, e sbarrare la via ai soccorsi che il generale La Moricière poteva portare loro dall’altro versante degli Appennini. Perciò il comandante del IV° corpo, affrettando la marcia più che poté, girò ad ovest di Ancona per Jesi, il 15 riuscì a spingere le sue prime truppe fino ad Osimo ed il 16 ad occupare le alture di Castelfidardo e delle Crocette, sulle strade che da Recanati e Loreto mettono capo a quella piazzaforte. Frattanto il generale Fanti era entrato alla testa del V° corpo d’armata nell’Umbria.
Un debole drappello pontificio rinchiuso in Città di Castello fu costretto ad abbassare le armi. Poiché seppe che il generale Schmid aveva lasciato Perugia per riassogettare Città della Pieve e l’Orvietano insorti, il generale in capo delle truppe italiane affrettò la mossa verso Perugia, mandando avanti, come avanguardia, una colonna leggera agli ordini del generale De Sonnaz. Il 14 la città, di Perugia si arrese ai nostri dopo ostinato e glorioso combattimento lungo le strade adducenti alla vecchia Rocca Paolina ed attorno a questa: la lotta fu sostenuta con molto valore dalla brigata granatieri di Sardegna e dal 16° battaglione bersaglieri. Il 15 settembre il V° corpo d’armata si concentrò attorno Foligno. Intanto il generale La Moriciere, con la riserva ed una parte della brigata Schmid, era riuscito a valicare gli Appennini a Colfiorito, rivolgendosi per Tolentino e Macerata alla volta di Ancona; lo seguiva ad una tappa, di distanza 1a, brigata, del generale Pimodan. Tra i116 ed il 17 settembre queste due colonne riuscivano a compiere il loro concentramento sotto Loreto, in presenza delle truppe del generale Cialdini, di già afforzate sulle alture di Castelfidardo.
Il giorno 17 il generale Fanti avviò il grosso del V° corpo d’armata, da Foligno verso Tolentino per la strada seguita dai pontifici: vi giunse il giorno 19. Il generale Brignone il giorno 16 era stato distaccato con il 3° reggimento granatieri di Lombardia, il 9° battaglione di bersaglieri e due squadroni, su Spoleto per espugnarne la rocca. Questa fu presa d’ assalto il giorno 17. Dopo di ciò il generale Brignone si recò il 20 a Terni e si spinse, per Narni, sino al Tevere. La 13a divisione (Cadorna) era destinata, a collegare il IV° al V° corpo d’armata per la strada interna degli Appennini, da Urbino a Cagli e Gubbio; il generale Fanti, poiché fu chiara la mossa dell’avversario, la rimandò al corpo del Generale Cialdini. Il 19 la divisione fece tappa a S. Severino Marche, mentre, come già abbiamo detto, il V° corpo d’armata giungeva a Tolentino.
Frattanto i1 generale La Moriciere, riunite le sue truppe attorno a Loreto la sera del 17, volle tentare di aprirsi la strada di Ancona verso la confluenza dell’Aspio con il Musone. Codesto movimento che doveva eseguirsi il mattino del 18 settembre diede luogo alla battaglia di Castelfidardo.
La giornata del 17 Settembre
Nella giornata del 17 le truppe del generale Cialdini sostarono per riposarsi ed apparecchiarsi a combattere. Era probabile che dovessero tener testa ad un doppio attacco, uno da Ancona, 1’altro da Loreto; ma il fatto dell’essere riuscito il generale Cialdini ad interporsi tra queste due località , sul1a linea più breve che le congiunge, gli facilitava il compito quando avesse proceduto ad un opportuno afforzamento delle colline fra Aspio e Musone su ambe le fronti, tenendovi le forze raccolte e limitandosi a semplici osservazioni sugli altri punti. Quanto all’attacco da sud, benché ritenesse come più probabile 1′ ipotesi che i pontifici tendessero, riuniti, ad aprirsi la via verso Ancona, procedendo da Loreto contro le alture che si elevano tra Castelfidardo e le Crocette, il generale Cialdini non escludeva la probabilità che essi mirassero invece verso le alture di Osimo.
Pertanto nella giornata del 17 egli fece addensare le difese tra le due anzidette località, di Castelfidardo e le Crocette. I ponti di Loreto sul Musone e sul Vallato erano già, stati rotti nei giorni precedenti. Né minori cure ebbe 1’assetto difensivo della fronte volta all’Aspio, coll’afforzamento dei gruppi di S. Roccbetto e dell’Abbadia, e con un gruppo avanzato (brigata Como, con artiglierie da posizione) al quadrivio di S. Biagio. La sera del 17 e nel corso della notte, le truppe della 4a, della 7a divisione e della riserva del corpo d’armata vennero a prendere posto nell’ordine che segue:
Fronte sud
Nucleo difensivo delle Crocette. – A mezzodì del villaggio, fronte ai ponti di Loreto, la 4 a batteria da, 16 dell’8° reggimento artiglieria, addetta alla riserva; più innanzi, presso al poggio che sovrasta ai cascinai de Campanari, la 2a batteria da 8 del 5° reggimento artiglieria; tra le due batterie, i tre primi battaglioni del 26° reggimento fanteria. La brigata Regina in riserva, ad occidente delle Crocette. Il quartiere generale della 4 a divisione alle Crocette.
Nucleo difensivo di Castelfidardo. – A metà strada fra Loreto e Castelfidardo, a cavallo della via, la 6a batteria di obici da 15 del 5° reggimento artiglieria, e sulla destra di essa una sezione della 5a batteria del 5° reggimento. Davanti all’artiglieria, i tre primi battaglioni del 2° reggimento fanteria, fronte ai ponti di Loreto. Il quartiere generale del IV° corpo d’armata, con il comando della brigata Bergamo ed il 4° battaglione dell’anzidetto reggimento, in Castelfidardo.
Posti avanzati. – Al ponte del Molino sul Vallato, l’11° e 12° battaglione di bersaglieri con due pezzi (coperti da uno spalleggiamento) della 5a batteria del 5° reggimento artiglieria. Alla Santa Casa di Sopra, il 26° battaglione di bersaglieri.
Linea d’osservazione. – I reggimenti lancieri di Milano e di Vittorio Emanuele (8 squadroni) a monte dei ponti di Loreto sul Musone e sul Vallato; tre squadroni del reggimento lancieri di Novara nella regione pianeggiante davanti ai Campanari.
Posti di segnalazione. – A Castelfidardo ed alle Crocette. A queste occupazioni avanzate, oltre che sbarrare il più breve percorso da, Loreto ad Ancona, cioè le strade di Castelfidardo e de11e Crocette, dalla qual parte si attendeva come più probabile 1′ avanzata dei pontifici, spettava anche il compito di osservare i passaggi del Musone più a valle verso la marina. Nuclei difensivi di Osimo, S. Sabino ed Abbadia. – sulla destra della fronte dinanzi descritta, nuclei difensivi erano ad Osimo, S. Sabino ed Abbadia, costituiti da, truppe della brigata Savona, comandata dal colonnello brigadiere Regis. In Osimo, preparato a difesa, erano il comando della 7a divisione, due battaglioni del 23° reggimento, sostituiti nella notte dal 17 al 18 da due battaglioni del 16°. A S. Sabino due battaglioni del 15° reggimento fanteria, con il comando della, brigata Savona.. Alla Badia i rimanenti due battaglioni del 15° reggimento fanteria, con il parco divisionale di artiglieria. La 1a batteria del 5° reggimento artiglieria era divisa per sezioni fra i tre nuclei; ad Osimo erano pure quattro pezzi della 4 a batteria del 5° reggimento artiglieria, che poi andarono a raggiungere al quadrivio di S. Biagio il resto della propria batteria che era colà con la brigata Como. Infine, ancora più a destra, a Torre di Jesi, rimasero a presidio degli accessi da Filottrano ed a custodia delle comunicazioni con Jesi, i rimanenti due battaglioni del 16° reggimento fanteria.
Fronte Nord.
Per opporsi, fronte verso 1’Aspio, ad un eventuale attacco del presidio di Ancona, il generale Cialdini aveva occupato S. Rocchetto ed il Quadrivio di S. Biagio. Il nucleo della Badia, doveva servire di collegamento fra i due. Con tali occupazioni si intercettavano le due principali comunicazioni provenienti da Ancona, per Camerano e la vallata della Baracola. Nucleo difensivo di S. Rocchetto. – Vi era disposto il 4° battaglione del 26° reggimento fanteria con la rimanente sezione della 5 a batteria del 5° reggimento artiglieria. Questo nucleo fu poi rinforzato da uno squadrone del reggimento Lancieri di Novara e dal 6° e 7° battaglione di bersaglieri, provenienti dalle Crocette.
Nucleo difensivo del Quadrivio di S. Biagio. – L’intera brigata Como agli ordini del colonnello brigadiere Cugia, con la 4 a batteria da 8 del 5° reggimento artiglieria, la 3 a batteria da 16 del 5° reggimento artiglieria, ed uno squadrone dei Lancieri di Vittorio Emanuele.
Posti avanzati. – Al ponte delle Ranocchie, distrutto, un battaglione del 23° reggimento fanteria, con una sezione della 4 a batteria del V° reggimento artiglieria.
Posti d’osservazione. – Poggi di Offagna e dorsale di Case Galli, sul versante verso 1′ Aspio, dominanti per ampio tratto le provenienze da Val di Baracola. In sostanza: nel settore di Ponte Molino, Crocette, Castelfidardo rimpetto agli accessi da Loreto, erano disposti 18 battaglioni di fanteria o di bersaglieri, 10 squadroni e 22 pezzi; nelle rimanenti sezioni della fronte verso sud, 4 battaglioni e 4 pezzi; lungo la fronte verso Ancona erano collocati i restanti 13 battaglioni di fanteria o bersaglieri, 2 squadroni e 16 pezzi. Nonostante la brevissima distanza che separava le due parti, i nostri non avevano che scarse e contraddittorie notizie sui pontifici, tanto più che l’esplorazione si era ristretta alla riva sinistra del Musone. Il terreno fitto e boschivo della vallata e gli alti argini toglievano di veder lontano dal sommo degli osservatori. Al colonnello brigadiere Avogadro di Casanova era giunta in Castelfidardo la notizia che i pontifici attendevano a trincerarsi sui poggi di Loreto; altri riferivano che, forti di 12 mila uomini, essi si apparecchiassero ad attaccare le colline tenute dai nostri. Alcuni informatori del luogo accertavano che i guadi a valle dei ponti di Loreto erano facili al transito, contrariamente a quanto risultava dalla ricognizione che il luogotenente colonnello Piola Caselli ne aveva fatto nella notte dal 16 al 17. Perciò il generale Cialdini, persistendo nel proposito di non allargarsi maggiormente verso il piano della marina, si limitò da questa parte ad ordinare una più attiva vigilanza e a far rinnovare la ricognizione dei guadi.
Pertanto, all’alba dell’indomani 18, il 26° battaglione di bersaglieri, posto a guardia della S. Casa di Sopra doveva occupare anche la S. Casa di Sotto, al piede delle colline: il 12° battaglione bersaglieri doveva rinforzare le vedette e le pattuglie che aveva disteso tra il ponte del Molino e la costa. Il luogotenente colonnello Piola Caselli, scortato da reparti dell’11° e del 12° battaglione di bersaglieri, doveva infine, durante la notte, rettificare la posizione degli avamposti al Musone e riconoscere nuovamente i guadi. A così stretto contatto con 1’avversario, non potevano in quel giorno mancare gli allarmi. Prima del tramonto, mentre lo scaglione guidato dal generale Pimodan, ed aspettato con impazienza, non era ancora giunto, i pontifici videro dai poggi di Loreto alcuni movimenti di truppe nostre lungo le colline di Castelfidardo. Per i campi papalini corse voce che quelle s’apparecchiassero all’attacco.
Occorreva subito accertarsene; perciò una ricognizione di dragoni s’avviò in gran furia alle scoperte, contro al ponte sul Musone. Fu accolta da una scarica di mitraglia; i dragoni voltarono le groppe, traendosi dietro due feriti. Poco prima 1’attenzione del generale Cialdini era stata attratta alla fronte settentrionale: dopo le ore 3 del pomeriggio, una punta di pontifici, che poteva ritenersi una testa d’avanguardia, non più forte di duecento uomini, con pochi dragoni e due pezzi, apparve sui Piani dell’Aspio; esitò ivi alcun poco come per orientarsi e ripiegò poi dietro le alture di Camerano. Gli indizi che, a grado a grado, i nostri ebbero in questo pomeriggio sull’una e sull’altra delle fronti, mentre accennavano adunque alla, possibilità di un doppio attacco, facevano indurre che questo si sarebbe manifestato sulla parte orientale soltanto della zona collinosa, cioè a cavallo della direttrice principale da Loreto ad Ancona.
Fu allora che, importando al generale Cialdini di raccogliere altre forze a portata delle alture di Castelfidardo, mandò 1’ordine al 16° reggimento fanteria, a Torre di Jesi, d’inviare due battaglioni ad Osimo, a rilevare il 23° reggimento di fanteria, il quale, come abbiamo detto, nella notte dal 17 al 18, fu mandato al Quadrivio di S. Biagio. La flotta italiana aveva saputo cogliere, in questo momento, un’opportuna occasione per cooperare efficacemente all’azione dell’esercito. Era salpata dalle acque di Napoli l’11 settembre, agli ordini del contrammiraglio Pellion di Persano. Si aspettava che tra il 15 e il 18 giungesse davanti ad Ancona per costringere quel presidio mobile pontificio a non abbandonare la piazza. Protette dal1a flotta, navigavano con essa le navi onerarie che recavano il grosso parco d’assedio allestito nel porto di Genova. Le truppe destinate a servirlo erano giunte il 16 a Jesi. La flotta austriaca aveva fatto crociera pochi giorni prima lungo le acque del litorale anconitano. Premeva perciò d’interrompere immediatamente le comunicazioni per mare fra Trieste ed Ancona, affinché nessun soccorso potesse giungere alla piazza da quella parte.
In questa, attesa, fin dal mattino del 16, il generale Cialdini aveva mandato informatori sull’alto della costiera di Sinigaglia per avvisarlo in tempo dell’arrivo delle navi. Queste furono avvistate all’alba del 17. Ne sbarcò subito il contrammiraglio Persano per recarsi ad Osimo a prendere gli accordi col generale Cialdini circa la cooperazione della squadra davanti Ancona. Fu deciso che 1’indomani essa avrebbe fatto dimostrazioni nelle acque di quella piazza, per distogliere dalle offese contro le truppe del IV° corpo d’armata i1 maggior nerbo del presidio pontificio.
Pontifici. – Con sforzi degni di truppe provette, lo scaglione dei pontifici, guidato dal generale in capo La Moriciere, i1 mattino del 15 arrivò a Macerata. Premeva di giungere presto alla costiera picena, allo scopo di imbarcare il tesoro da guerra per approvvigionare la piazza di Ancona, ed i bagagli più interessanti da porre al sicuro dentro le sue mura. Donde la scelta della via più lunga ma più opportuna per Monte Lupone, Monte Santo, S. Maria di Potenza e Porto Recanati. Sorrideva pur sempre al comandante 1’esercito papale l’idea d’appoggiarsi ad Ancona ben munita per logorare i nostri e dar tempo agli sperati soccorsi stranieri di giungere. All’alba de1 16 lo scaglione condotto dal generale in capo s’avviò da Macerata a Porto Recanati; quello del generale Pimodan lo seguiva ad una giornata di distanza. La piccola armata pontificia doveva raccogliersi a Loreto la sera del 17.
Il 16, sul tramonto, il generale La Moriciere pervenne con i suoi alla costiera di Porto Recanati. Non vi trovò le cannoniere della marina, che fin dal 14 aveva chiesto da Tolentino: la comunicazione telegrafica era stata interrotta. Fece allestire grosse barche pescherecce. Per fortuna, un battello a vapore con bandiera pontificia, il San Paolo, spiccato in crociera da Ancona giù per la costa picena, s’accostò alla spiaggia ed imbarcò il tesoro di guerra. In gran furia si compì il trasbordo, perché era corsa voce che già Loreto fosse caduta in mano dei nostri, e perché il riflusso della marea poteva, di momento in momento, rimandare 1’opera urgentissima all’indomani. Nel trambusto, anche il numerario che doveva provvedere ai giorna1ieri bisogni dell’armata passò a bordo del San Paolo. Questo salpò che era già notte, recando ad Ancona 250000 franchi e la bandiera di Lepanto, che era con lo scaglione del generale La Moriciere: egli aveva chiesto quel labaro al santuario di Loreto, perchè per esso contava di rinnovare tra i suoi gli entusiasmi e la fede dei vecchi crociati. Ora premeva accertare le notizie relative a Loreto.
La stessa sera uno squadrone di gendarmi agli ordini del capitano Palfy si avanzò verso questa città, occupo 1’abitato, che era affatto sgombro, e si spinse fin verso i ponti del Musone. Ne fu ricacciato dalla mitraglia. Sulla mezzanotte il grosso della colonna raggiunse lo squadrone, e pose campo a sud di Loreto. Prima dell’alba del 17 i pontifici rettificarono le posizioni. Le linee degli avamposti dei due avversari non distavano più di 1800 metri l’una dall’altra. Era noto ai pontifici che le strade da Loreto a Camerano ed Osimo erano precluse dagli italiani afforzati sulle colline, e che la loro flotta era comparsa sotto Ancona. Lo scaglione del generale Pimodan non era ancora giunto; le truppe estenuate e digiune avevano bisogno di viveri e di riposo; gli abitanti si rifiutavano di recare vettovaglie ai campi pontifici se non per denaro, e questo faceva assolutamente difetto, poiché le casse da guerra erano salpate sul San Paolo. In questa critica situazione, al La Moriciere non restava che tentare di raggiungere Ancona, checché costasse. Esclusa l’idea di un attacco delle colline tra Castelfidardo e le Crocette, si trattava di guadagnare la via denominata del Monte d’Ancona, che si distacca da Porto Recanati, guada il Musone poco a valle della confluenza con 1’Aspio, e quindi, per sentieri traversi, sale per Umana, Sirolo, Massignano e Poggio, ad Ancona, rasente alla ripa che scoscende al mare.
Poiché gli italiani avevano lasciati sguarniti altri passaggi più a monte, che pure adducono alla via del Monte d’Ancona, il generale La Moriciere decise di profittarne, facendo marciare le truppe su larga fronte, col fermo intento di raggiungere quella via da più parti, anche a costo del sacrifizio di qualcuna delle piccole colonne e delle impedimenti. Nel frattempo, era svanita ogni possibilità di cooperazione e di accordo fra le truppe del generale in capo e quelle del presidio mobile della piazza di Ancona. Il generale De Courten, per eseguire gli ultimi ordini che, fin dal 15, aveva avuto dal generale La Moriciere, di difendere cioè la piazza e di uscirne per accorrere al cannone delle truppe sopravvenienti, aspettava notizie precise sulla marcia del grosso dei pontifici prima di muovere incontro ad essi. Poiché dai nostri furono intercettate le comunicazioni telegrafiche, come abbiamo accennato, supplirono le crociere dei piccoli legni deporto: fu così che il San Paolo, all’alba del 17, recò in Ancona la notizia dell’arrivo dei pontifici a Loreto.
Il generale Del Courten lasciò il colonnello De Gady, con 2000 uomini a presidiare la piazza; con i rimanenti 1800 all’incirca e due batterie da campagna salì sulle alture di Camerano; di 1à mandò alle scoperte una colonna leggera, quella che, come abbiamo già visto, alle ore 3 del pomeriggio, comparve sui piani dell’Aspio. Nulla accennava a rumore di combattimento dalla parte di Loreto. Imbruniva. Inquieto per la crociera delle navi italiane, il generale De Courten decise di far ritorno ad Ancona: abbandonava così alla loro sorte le truppe dei generali La Moriciere e Pimodan. La sua marcia notturna fu segnalata dalle vedette della brigata Como, al Quadrivio di S. Biagio, le quali videro una lunga fila di lumi serpeggianti tra le pendici di Camerano e di Monte Umbriano. Il generale Pimodan, intanto, era giunto a Loreto sul far della sera con le truppe stanche, digiune; avevano marciato da una settimana tra i monti, a grandi tappe, senza tregua e senza mezzi adatti, da Narni e da Terni sino alle foci del Potenza. Dalle alture di Loreto il generale Pimodan poté a malapena abbracciare d’un solo sguardo le colline verdeggianti che erano di fronte, gremite d’armati. Il generale La Moriciere gli additò i bivacchi delle truppe e la strada del Monte d’Ancona che si perdeva in riva al mare. Scese la notte.
LA GIORNATA DEL 18 SETTEMBRE La battaglia
Prima fase: L’offensiva della colonna Pimodan alle Sante Case, Il combattimento dei bersaglieri (dalle ore 9:30 de1 mattino alle ore 14).
Prima dell’alba. Il generale Cialdini si recò da Castelfidardo alle Crocette; visito i bivacchi e le posizioni delle truppe nostre, impartì ordini e ricevette il rapporto della ricognizione del luogotenente colonnello Piola Caselli, che, accompagnato dal luogotenente Orero, e scortato da drappelli di bersaglieri, era disceso in quella notte giù per il Musone, lungo gli argini. Nulla accennava a preparativi d’attacco dalla parte dei pontifici. Il generale Cialdini ritornò a Castelfidardo per incontrarvi il commissario generale, avvocato Valerio, destinato a reggere, da Pesaro, il governo delle nuove terre. Alle 9:30 circa; mentre le truppe, deposte le armi, attendevano ad apparecchiarsi il rancio, partirono le prime fucilate dalle adiacenze delle case Arenici: la battaglia, che i nostri credevano oramai differiFin dal primo mattino, secondo gli ordini ricevuti, il capitano Barbavara di Gravellona, comandante del 26° battaglione di bersaglieri, aveva spinta la 101 a compagnia (capitano Fessia) ad occupare la Santa Casa di Sotto: di qui i bersaglieri dovevano spiare le mosse dei pontifici e segnalarle subito. Più a valle, l’11° bersaglieri aveva una compagnia (44°) oltre la confluenza dell’Aspio. Il mattino questa compagnia doveva essere sostituita da una del 12° (47 a capitano Della Casa). Un pugno di bersaglieri della 101 a compagnia s’era disposto alle vedette presso alle Case Arenci, coperto dagli alberi e dai canneti. All’improvviso, tra il fitto della coltura apparvero due compagnie di carabinieri svizzeri; i bersaglieri diedero l’allarme e si ripiegarono sugli argini, ove subito 1a 47 a compagnia, dinanzi accennata, li sostenne: la 101 a, lasciata la S. Casa di Sotto, accorse; le tre compagnie rimanenti del 26° battaglione, col capitano Barbavara, s’apprestarono a scendere dalla S. Casa di Sopra, in appoggio alla 101a . Le due compagnie svizzere appartenevano all’avanguardia della colonna Pimodan. Sicuro oramai che gl’italiani non tenevano i guadi adducenti alla strada del Monte di Ancona, il generale La Moriciere aveva deciso di avviare le impedimenti per la strada migliore più lontana che da Barderola, per Simia, conduce al guado di casa Camilletti, presso la confluenza dell’Aspio nel Musone.
Fin dal primo mattino, secondo gli ordini ricevuti, il capitano Barbavara di Gravellona, comandante del 26° battaglione di bersaglieri, aveva spinta la 101 a compagnia (capitano Fessia) ad occupare la Santa Casa di Sotto: di qui i bersaglieri dovevano spiare le mosse dei pontifici e segnalarle subito. Più a valle, l’11° bersaglieri aveva una compagnia (44°) oltre la confluenza dell’Aspio. Il mattino questa compagnia doveva essere sostituita da una del 12° (47 a capitano Della Casa). Un pugno di bersaglieri della 101 a compagnia s’era disposto alle vedette presso alle Case Arenci, coperto dagli alberi e dai canneti. All’improvviso, tra il fitto della coltura apparvero due compagnie di carabinieri svizzeri; i bersaglieri diedero l’allarme e si ripiegarono sugli argini, ove subito 1a 47 a compagnia, dinanzi accennata, li sostenne: la 101 a, lasciata la S. Casa di Sotto, accorse; le tre compagnie rimanenti del 26° battaglione, col capitano Barbavara, s’apprestarono a scendere dalla S. Casa di Sopra, in appoggio alla 101a . Le due compagnie svizzere appartenevano all’avanguardia della colonna Pimodan. Sicuro oramai che gl’italiani non tenevano i guadi adducenti alla strada del Monte di Ancona, il generale La Moriciere aveva deciso di avviare le impedimenti per la strada migliore più lontana che da Barderola, per Simia, conduce al guado di C. Cami1letti, presso la confluenza dell’Aspio nel Musone.
Due colonne, procedendo parallele, a monte di quella via, dovevano, l’una, quella di sinistra, attaccare 1’avversario di là dalle Case Arenici; 1’altra, per le vie traverse tra la campestre delle Case Arenici e quella assegnata alle impedimenta, avvolgere e minacciare da tergo l’estrema sinistra nemica. Il generale La Moriciere affidò al generale Pimodan il comando delle colonne di sinistra, forte di 5 battaglioni di fanteria, 2 squadroni di dragoni con drappelli di cavalleggeri e 2 batterie (8 cannoni e 4 obici), in complesso 3500 uomini di truppe, fra straniere ed indigene, reputate assai solide. Tenne per sé il comando diretto de1la seconda colonna, composta di 4 battaglioni di fanteria (3 dei quali di linea esteri), del parco di artiglieria, di reparti d’Irlandesi di S. Patrizio, di gendarmi a cava1lo e di guide: in tutto 3300 uomini all’incirca. Alla condotta della colonna carreggio, cui si aggiunse la piccola riserva di artiglieria pontificia (4 pezzi), fu preposto il volontario a cavallo Terouane. Il generale Pimodan lasciò i campi di Loreto alle ore 8 e 30 del mattino. Le sue truppe erano digiune. Egli doveva passare il guado ed attaccare con azione subitanea la S. Casa di Sotto, stabilirvisi con fanteria ed artiglieria solidamente e. con un cambiamento di fronte a sinistra, preparare poi 1’attacco della S. Casa di sopra, mentre la colonna guidata dal generale in capo doveva seguire a rincalzo, da tergo e da fianco.
I carabinieri svizzeri, di cui abbiamo fatto cenno, dopo le prime fucilate intorno alle Case Arenici pervennero al guado di gran corsa. Non v’erano che 60 o 70 centimetri d’acqua: lo attraversarono a furia e vennero a far siepe fitta contro gli argini di sponda sinistra del Musone. Alle sei compagnie del battaglione carabinieri (maggiore Jeannerat) tenevano dietro il 1° battaglione di cacciatori indigeni (Maggiore Ubaldini) ed il battaglione di tiragliatori franco-belgi o zuavi (Maggiore Becdelievre) . Il colonnello Corbucci fu preposto al comando di codesta schiera. Con i carabinieri si avanzò subito una sezione di artiglieria di 1à dal guado, spinta a braccia da un centinaio di Irlandesi del battaglione di S. Patrizio, venuti da Spoleto. Il ciglione del1’argine di riva sinistra la defilava dalla vista. Il 2° battaglione cacciatori indigeni (Maggiore Giorgi), ed il 2° battaglione di bersaglieri austriaci (Maggiore Fuckmann) erano ancora indietro in riserva, a sud del guado, ove erano pure la cavalleria ed i traini (tenente Ubaldini). Sulle dighe, tra i canneti, la mischia divampò presto furiosa. Stormeggiando, i carabinieri svizzeri si lanciarono contro la S. Casa di Sotto, seguiti dai tiragliatori franco-belgi, dai cacciatori del 1° battaglione e dai due pezzi, condotti dal tenente Daudier.
Benché colti da quel tempestare vivo e preciso della moschetteria di tre battaglioni pontifici , prima dagli argini, poi sul fianco e sul tergo dalle macchie folte di canneti e di giuncaglie, i bersaglieri della 47a e 101a compagnia contrattaccarono vigorosamente, alla baionetta. Soverchiati, travolti dall’onda crescente dei nemici che li avviluppavano da ogni parte, tra le insidie di quel terreno scuro e difficile, i bersaglieri proseguirono pertinacemente nella lotta, aggruppandosi in nuclei staccati. Il combattimento si spezzava in altrettanti singoli episodi. Il capitano Della Casa cadde alla testa dei suoi: la 47 a compagnia si ripiegò a gruppi verso la cascina Scaino, in direzione del 12° battaglione; 1a 101 a si ritrasse sulla S. Casa di Sotto, guarnì i1 fosso che la rasenta e s’apparecchiò a difenderla. Il cortile della casa, 1e alte muraglie, i fienili, potevano dar buono appoggio a codesta difesa.
Frattanto le rimanenti tre compagnie e del 26° battaglione erano discese dalla S. Casa di Sopra alla volta di quella di Sotto, dopo avere aspettato alcun poco la 104a compagnia, che era alquanto più arretrata. Due plotoni della 103a (sottotenente Curato) andarono in rinforzo della 101a nella difesa della S. Casa di Sotto e del fosso che la fiancheggia: le altre tre compagnie, al largo, cercavano di sventare l’avvolgimento dei pontifici verso le cascine Serranello di Mirano.
La 104a compagnia (capitano Nullo) i lanciò con impeto da quella parte, le baionette spianate: i due cannoni pontifici stavano già per collocarsi in batteria al di là della S. Casa di Sotto: s’appiccò subito un’aspra mischia all’arma bianca tra bersaglieri da una parte e cannonieri pontifici ed irlandesi dall’altra, rincalzati poco dopo da una compagnia di carabinieri svizzeri, che il generale Pimodan aveva mandato in soccorso.
Il capitano Nullo, ferito a morte, cadde prigioniero con pochi dei suoi: a furia di contrassalti i bersaglieri condotti dal luogotenente Canina lo strapparono dalle mani del nemico, con tutti i compagni di lui.
In questo combattimento, ondeggiante con varia vicenda tra gli argini del Musone, il fosso e la S. Casa di Sotto, l’attacco dei pontifici, benché vigoroso, non ebbe la compattezza, che sarebbe occorsa in quella situazione, in cui premeva di giungere presto ad un risultato.
Il 1° battaglione di cacciatori indigeni s’era quasi sfasciato; il suo comandate fu sostituito dall’aiutante maggiore Azzanesi.
Vi fu un momento in cui i carabinieri svizzeri ed i tiragliatori franco-belgi si trovarono colpiti a tergo da moschettate che venivano dalle linee retrostanti degli stessi pontifici. Corse voce che gl’indigeni del 2° battaglione cacciatori avessero fatto fuoco a bella posta, per dispregio o per tradimento. Nella confusione, i carabinieri, lasciata una compagnia di scorta alla sezione di artiglieria, si erano ripiegati sulle dighe per appoggiarvisi. Il generale Pimodan inviò aiutanti a rassicurare i suoi, troncò quindi le esitanze e formò delle nuove colonne d’assalto.
I carabinieri svizzeri in prima schiera; il 1° battaglione di cacciatori indigeni ed il battaglione di tiragliatori franco-belgi a rincalzo; il maggiore Becdelièvre doveva raccogliere e guidare codeste truppe a massa.
Gli altri due battaglioni della colonna Pimodan, cioè il 2° cacciatori indigeni ed il 2° bersaglieri austriaci, rimasero indietro coperti dagli argini. I due squadroni, agli ordini del maggiore Odescalchi, dovevano eseguire un avvolgimento pel terreno spacciato presso la confluenza dell’Aspio nel Musone. I due cannoni della S. Casa di Sotto aprirono il fuoco contro la S. Casa di Sopra per sostenere 1’attacco: altri sei pezzi, tra cannoni ed obici, si apprestavano a collocarsi accanto alla sezione. Attendeva a questo i1 tenente colonnello Blumensthil, comandante dell’artiglieria papale; ma incontrava difficoltà gravi di terreno.
Di fronte a questa nuova e più poderosa riscossa dei pontifici, il 26° battaglione, allo stremo di munizioni, dopo un’ultima difesa dietro al fosso e presso alla S. Casa di Sotto, si ripiegò per la via campestre alberata che conduce alla S. Casa di Sopra, cedendo il terreno a palmo a pa1mo. In questo ripiegamento la 102a compagnia, meno impegnata nella mischia, aveva preceduto le altre per raccoglierle.
Sicchè i pontifici, vinta ogni resistenza oltre gli argini di riva sinistra del Musone, cambiarono fronte a sinistra e andarono a schierarsi in battaglia al piede delle colline della S. Casa. di Sopra.
Frattanto, al primo allarme, tutte le truppe italiane sulle colline avevano riprese le armi. Il generale Villamarina, che era alle Crocette, udito 1’ingrossare del combattimento tra le boscaglie sottostanti, diede i primi ordini per portare soccorso ai bersaglieri.
Sembrava dapprima che i pontifici volessero far dimostrazioni contro l’estremo fianco sinistro dei nostri, per obbligare a sguarnire la fronte; e perciò soltanto il 1° e 2° battaglione del 10° reggimento di fanteria, più vicini alla strada delle Crocette, ebbero l’ordine di avviarsi alla volta della S. Casa di Sopra. Li seguirono a breve intervallo gli altri due battaglioni, con una sezione della 2a batteria del 5° reggimento. Il ciglione delle alture, coperto da boscaglia, nascondeva codesti movimenti.
Il generale Cialdini, da Castelfidardo, si recò di rapido galoppo sul luogo del combattimento dei bersaglieri. Erano circa le 11 del mattino.
Seconda fase: La controffensiva degl’italiani. L’azione del 10° reggimento fanteria. (Dalle ore 11 alle ore 11,30).
Poco ad ovest della S. Casa di Sotto una collina, allora arata di fresco, sale con lieve ed uniforme pendio fino al poggio denominato di Monte d’Oro; una via campestre alberata ne percorre il dosso; in capo ad essa e la bianca Casa di Sopra, circondata in quel tempo, a settentrione e ad occidente, da macchie d’alberi finti ed alti che ne limitavano il campo di vista in queste due direzioni. Tali le posizioni contro cui s’apparecchiavano a montare all’assalto i pontifici con il generale Pimodan a1la testa.
La lezione di artiglieria Daudier dalla S. Casa di Sotto raddoppiò il suo fuoco. Tiragliatori franco-be1gi e carabinieri sopravanzarono d’un balzo il 1° battaglione dei cacciatori indigeni; il breve spazio fu traversato a stormi, a sbalzi successivi, intervallati da soste brevi e frequenti per ripigliare lena e rinsaldare i nuclei sparsi.
Dall’alto della S. Casa di Sopra e dal ciglione che le sovrasta i bersaglieri del capitano Barbavara aspettavano calmi la bufera che saliva: a colpi di moschetto, radi ma precisi, riuscirono far testa per poco tempo. Ma serrati da ogni parte, travolti in una lotta a corpo a corpo, a punta di baionetta, a ca1ci di fucile, tempestati dalla mitraglia pontificia, si ritrassero dalla S. Casa di Sopra tra le boscaglie oltre il cig1ione, di là dalla via campestre di Cascina Corraini.
A quel punto giunsero correndo sul Monte d’Oro il 1° e il 2° battaglione del 10° fanteria, mandati a quella volta dal generale Villamarina: li seguivano i due rimanenti battag1ioni dello stesso reggimento e la sezione della 2a batteria del 5° artiglieria. L’angustia delle strade campestri e l’erta collinosa avevano alquanto ritardata la marcia di questi primi soccorsi.
Così, per più di un’ora, i bersaglieri del 26° battaglione avevano fatto testa all’avversario cinque volte maggiore, a prezzo di gravi perdite; nel ritirarsi sulle alture, anche il capitano Paolo Gusberti fu ucciso. Di cinque compagnie bersaglieri impegnate, tre avevano perso i loro capitani.
Tosto che i due primi battaglioni del 10° fanteria giunsero sul ciglione del Monte d’Oro, il generale Cialdini ordinò al tenente colonnello Bossolo, che li precedeva, di far lasciare gli zaini; indicò loro i due cascinali sottostanti caduti in mano dei pontifici ed ordinò di riconquistarli, alla baionetta. Al colonnello Avenati, comandante della brigata Regina, diede l’ordine di guarnire con il 9° reggimento il poggio di S. pellegrino, a guardia dei sottostanti passaggi sull’Aspio; ai tre squadroni dei lancieri di Novara di apparecchiarsi ad operare nel piano; ad altri due pezzi della 2a batteria del 5° reggimento di raggiungere la sezione già partita, ed infine alla 4a batteria di cannoni da 16 dell’8° reggimento (capitano Rizzetti) di tenersi pronta ad aprire il fuoco.
Al grido poderoso di “Viva il Re” i fanti del 10° reggimento si lanciarono giù dal ciglione verso la S. Casa di Sopra; si unirono ad essi i bersaglieri del capitano Barbavara a frotte, punti dal desiderio di porsi in testa della linea e riacquistare i perduti cascinali. In questa gara il grande ardore dei nostri era a mala pena padroneggiato dai capi.
La 1a sezione della 2a batteria, condotta dal capitano Sterpone, venne di galoppo a collocarsi arditamente presso il ciglione delle alture, per battere la S. Casa di Sotto e la fanteria e l’artiglieria pontificia che andavano addensandosi attorno ad essa.
Tiragliatori franco-belgi e carabinieri svizzeri, annidatisi a stormi presso Casa Corraini, opposero un primo intoppo all’assalto dei nostri.
Più acerba e furiosa s’appiccò la zuffa attorno alla Casa di Sopra; carabinieri e tiragliatori vi si erano aggrappati tenacemente; li eccitavano nella resistenza il generale Pimodan, il maggiore Becdelièvre ed il capitano Charette; un cannone (tenente Daudier) tratto su faticosamente a forza di braccia dagl’Irlandesi di S. Patrizio aveva rinvigorito e consolidata codesta difesa. Bersaglieri e fanti del 10° reggimento accerchiarono la Casa: le fiammate, alte e fumose, dei pagliai che s’incendiavano, toglievano la vista dei singoli episodi.
Respinti, i nostri ritornarono all’assalto. La lotta si svolgeva con alterna vicenda. Il terreno interposto tra la Casa di Sopra, la via campestre di C. Corraini ed il ciglione, era seminato di caduti dell’una e dell’atra parte: fra i nostri, i capitani Cugia di S. Orsola e Scorticati ed il tenente Volpini della 10a fanteria. Il generale Pimodan, colto da due colpi di moschetto, si reggeva ancora sul cavallo per dare animo ai suoi.
Frattanto, anche la seconda schiera dei pontifici, condotti dal generale in capo, era comparsa sul campo di battaglia. Era partita da Loreto dopo le 9 del mattino, formata in due scaglioni: uno, comandato dal tenete colonnello Alet, l’altro dal colonnello Cropt. Il primo, che marciava alla testa, si componeva dei due battaglioni del primo reggimento fanteria estero, del parco di artiglieria, e di uno squadrone di cavalleggeri austriaci.
Il secondo scaglione comprendeva il secondo battaglione del secondo reggimento di fanteria indigeno (maggiore Sparagana), il secondo battaglione del secondo reggimento di fanteria straniera (maggiore Bell) con uno squadrone di gendarmi e le ambulanze in massima parte someggiate.
Queste truppe sfilarono da Loreto dopo la colonna Pimodan, che si era avviata per la strada di Casa Arenici; presero quindi la via campestre del Bozzo, per guardare il Musone più a valle dell’altra colonna e protette da essa.
Oltrepassato il corso d’acqua, le truppe guidate dal generale La Moricière fecero fronte a sinistra verso le alture e si disposero in linea di colonne: in prima schiera i due battaglioni del reggimento estero, in riserva i rimanenti i due battaglioni della colonna, la cavalleria e le impedimenta. Non avevano ordini; forse soltanto quello di aspettare il momento opportuno per prendere senz’altro la via del Monte d’Ancona, tosto che il grosso carreggio fosse sfilato e fossero decise le sorti del combattimento sull’alto del Monte d’Oro.
In questa attesa, impaziente, il generale La Moricière ordinò da prima al 2° battaglione dei cacciatori indigeni e al 2° battaglione dei cacciatori austriaci di soccorrere, l’uno da destra e l’altro da sinistra, la linea dei tiragliatori, dei carabinieri e degli altri cacciatori indigeni; poi mandò ordine al maggiore Odescalchi, comandante del grosso della cavalleria pontificia (1° e 2° squadrone di dragoni indigeni, drappelli di cavalleggeri e di guide) rimasto ancora sulla destra del Musone, di passare il corso d’acqua, per operare sul fianco dell’avversario rimontando l’Aspio; infine ai due battaglione del 1° reggimento straniero ordinò di avanzare in 1a linea a prendere il posto della colonna Pimodan, già travolta nella mischia.
Era tardi oramai: tempestate dall’artiglieria nostra, le truppe della colonna La Moricière si sfasciarono; il movimento del 1° reggimento straniero accrebbe il trambusto; la cavalleria pontificia, superati a gran fatica gli argini, s’era smarrita in un dedalo di boscaglie e dispersa; l’artiglieria, attorno alla S. Casa di Sotto, era nell’impossibilità di muoversi per le difficoltà del terreno arato.
La crisi precipitava; la Casa di Sopra cadeva alla fine nelle mani dei nostri. I pontifici furono ricacciati giù per le pendici sulle linee retrostanti, che già oramai erano anch’esse in scompiglio. Il terreno smosso ed i fossati fecero intoppo alla foga vittoriosa del 10° reggimento. I quattro pezzi della batteria Sterpone allungarono i loro tiri oltre la Casa di Sotto; la quarta batteria dell’8° reggimento, collocata sulle basse pendici del poggio di S. Pellegrino, prese a battere da fianco e disordinate linee retrostanti dell’avversario, che andavano a rifascio.
Oramai attorno alla Santa Casa di Sotto, i fanti del 10° reggimento stavano per decidere dell’ultimo episodio della giornata.
Terza fase: La crisi e l’inseguimento (dalle ore 11,30 alle ore 14,00 pom.).
Le vicende del combattimento imponevano al generale La Moricière di persistere nel suo disegno di raggiungere la piazza di Ancona con il meglio dei suoi e rinforzarla con essi, giacché ripiegare su Loreto, con truppe oramai così sfasciate, sarebbe stato esporle ad una capitolazione in rasa campagna.
Diede gli ordini in questo senso: la fanteria doveva riordinarsi, protetta dalla cavalleria e dall’artiglieria; gli sbandati raccogliersi sulla riva destra del Musone, rimpetto al guado di Cascina Camilletti, coperti dalle dighe, e procurare di arrivare di là sulla strada di Umana.
Ma gli ordini non pervennero, perché delle guide cui erano affidati, taluna fu uccisa per via, tale altra si smarrì per il terreno scuro ed intricato.
Vediamo che avveniva intanto presso la Casa di Sotto. Qui i nostri, incalzando i nemici, erano stati accolti da una fucilata fitta a bruciapelo dai fossati e dalle siepi circostanti. Si erano fermati. I bersaglieri austriaci del maggiore Fuckmann, traendo partito da questo indugio, contrassaltarono subito per dare aiuto ai tiragliatori franco-belgi ed ai carabinieri svizzeri, oramai logori dall’aspro combattimento; ma fu breve sosta; accerchiati, travolti da ogni parte, i pontifici piegarono confusamente verso il grosso dell’artiglieria del colonnello Blumensthil, trascinandosi dietro i due cannoni del tenente Daudier, i più pertinaci nella lotta.
Presso la Casa di Sotto e nel suo cortile, un pugno di tiragliatori e di carabinieri s’era stretto attorno al generale Pimodan ferito: difese quell’appiglio con accanimento ancor maggiore di quello spiegato nella lotta attorno alla Casa di Sopra. Infine i pontifici si arresero.
L’azione del 10° fanteria durò presso che tre quarti d’ora: quel reggimento ebbe gravi perdite: 3 ufficiali e 47 di truppa morti, oltre a 10 ufficiali e 92 uomini di truppa feriti.
Dalla Casa di Sotto riconquistata, bersaglieri e fanti piombarono subito sul grosso dell’artiglieria pontificia; il tenente Miguet, alla testa di alcuni bersaglieri e di un pugno di fanti del 10° reggimento, si lanciò su tre pezzi nemici; impacciati in quel terreno smosso, quei pezzi con i loro cassoni caddero preda degli assalitori.
Gruppi di cannonieri, di zuavi, di carabinieri, di cacciatori e di Irlandesi, si impegnarono a frotte in una tremenda mischia spicciolata con i nostri: una bandiera trovavasi in mezzo ai pontifici. La rabbia dei caduti non cedeva neppure ai pietosi uffici dei soccorritori; alcuni feritisi levavano per vibrare stilettate a chi apprestava farmaci.
La lotta che si era svolta sull’estrema sinistra della fronte de nostri, non lasciava più alcun timore di attacchi nemici su altre parti della fronte. A tergo, verso Ancona, il brigadiere Cugia, sul far del giorno, aveva occupato Camerano con il 23° reggimento fanteria e quattro pezzi della 4a batteria del 5° reggimento ed aveva saputo che il generale De Courten si era ripiegato la sera innanzi con tutte le sue truppe dentro la piazza d’Ancona. Queste buone notizie erano giunte, durante il combattimento, al generale Cialdini, che dalle alture ad oriente del Crocette ne osservava le vicende. Mercè la felice iniziativa del brigadiere Cugia, non restava ormai che occupare anche le colline di Massignano per precludere materialmente al La Moricière ogni via di scampo verso Ancona.
E perciò al brigadiere Cugia il generale Cialdini mandò subito l’ordine – latore il capitano di stato maggiore Minonzi – di occupare Massignano con uno dei battaglioni già disposti a Camerano e con lo squadrone dei lancieri di Vittorio Emanuele.
Frattanto il brigadiere Avenati, dal poggio di S. Pellegrino, scorgendo frotte di edifici affluire in rotta verso la costiera d’Umana, alla testa del 9° reggimento fanteria oltrepassò di sua iniziativa l’Aspio sopra un ponticello di legno per precludere la via ai fuggiaschi da quella parte. Al di là dell’Aspio, la colonna si divise in due parti: l’una, con due battaglioni condotta dal brigadiere Avenati, si diresse ai poggi ed all’abitato d’Umana; l’altra, con le rimanenti sei compagnie del reggimento (due compagnie erano rimaste a presidiare Pesaro), agli ordini del colonnello Durandi, s’avviò alla marina verso quel porto.
Mentre così da settentrione si provvedeva a tagliare i nemici da Ancona, tra Aspio e Musone si sbarrava loro la strada alla volta di Loreto. I tre squadroni dei Lancieri di Novara, muovendo dai cascinali dei Campanari, girarono lungo il piede delle alture per lanciarsi alla carica sui pontifici accalcati tra Aspio e Musone: il 12° e l’11° battaglione bersaglieri seguirono subito il movimento della cavalleria avanzandosi dai ponti del Vallato e dalla Cascina Scaino; i tre battaglioni del 26° fanteria, dalle Crocette, calarono verso Cascina Scaino; il 4° battaglione del 26° dai Piani d’Aspio si recò alle Crocette a prendere il posto dei tre battaglioni che ne erano partiti.
Dopo le ultime vicende alla Casa di Sotto la sbandata dei pontifici diventò fuga. Invano tentarono di fare argine, dalle linee retrostanti, alcuni gruppi di soldati del 1° reggimento di linea straniero: neppure questi avanzi delle guerre d’Africa, di Crimea e d’Italia ressero, bersagliati come erano dalla nostra artiglieria da fronte e da fianco.