La storia – Premessa
La storia quale passato e quale conoscenza del passato.
Chi inizia una ricerca deve innanzitutto sapere che cosa essa è e a che cosa essa mira. Per questo dobbiamo porci un primo fondamentale interrogativo:”Che cosa e’ la storia?”. La domanda può sembrare inutile: tutti coloro che possiedono un minimo di istruzione hanno studiato la storia e ne conoscono il significato comune di “narrazione di avvenimenti passati”. La risposta però merita un approfondimento. Innanzitutto è da chiarire che nel vocabolo “storia” è insita un’ambiguità non esclusiva della lingua italiana, poiché significa nel contempo la serie degli avvenimenti trascorsi e la conoscenza del passato concretatasi in una narrazione (nonché la disciplina che a tale conoscenza presiede). I due aspetti, ancorché confusi, vanno tenuti distinti: l’uno si riferisce alla realtà storica, alle “res gestae“, l’altro alla conoscenza storica, alla “historia rerum gestarum“.
Nella lingua italiana, al fine di eliminare ogni confusione, in tempi relativamente recenti è stato introdotto il termine di “storiografia” per indicare in modo univoco la conoscenza storica. Il vocabolo però si è affermato nel significato di lavoro pratico nel quale la conoscenza storica si concretizza, nell’accezione cioè di opera letteraria di argomento storico, nonché di scienza che presiede alla compilazione delle opere storiche. Riservandoci di esaminare in un secondo tempo i rapporti che legano storia e storiografia, realtà e conoscenza storica, è su questa ultima che dobbiamo soffermare la nostra attenzione.
La storia quale conoscenza.
Come già accennato, “storia” deriva dal verbo greco “istoreo” che può tradursi in “ricercare”, “indagare”.
Nel quadro di questo significato si andò in breve affermando l’uso del termine “storia” nel senso di indagine sugli avvenimenti del passato e poiché la ricerca porta alla conoscenza, alla scienza, con il tempo prevalse l’uso di farne coincidere il significato con il risultato delle indagini stesse: si è intesa cioè la storia quale conoscenza del passato. Conoscenza che, per natura del suo oggetto, non può essere che indiretta, cioè basata sulle testimonianze che il passato ha lasciato di sé. Nella sua vera essenza, pertanto, la storia non è acquisizione di nozioni e di date ma attività di ricerca, di indagine, e quindi di pensiero, che ha natura critica, perché basata sul vaglio delle testimonianze lasciate dal passato e perché delle vicende accertate deve individuare origine, nessi, conseguenze. Senza un raggruppamento in sistema, infatti, rimarrebbero inintelligibili né sarebbe possibile esprimere un giudizio su di esse. Anche altre discipline si interessano del passato ed ogni fenomeno che presenta uno sviluppo nel tempo può divenire oggetto di storia. La nostra però verte esclusivamente sul passato dell’uomo, che ne è il protagonista. Incentrata sull’uomo, la storia non può limitarsi alla nuda ricostruzione degli eventi ma deve tendere a riscoprire, oltre le azioni, anche le idee, i sentimenti, i valori, che furono propri degli uomini e delle civiltà del passato, nonché ad esprimere un giudizio.o soffermare la nostra attenzione.
Da quanto sin qui asserito, si può quindi giungere a definire la storia come conoscenza critica del passato umano con l’ausilio delle testimonianze che esso ha lasciato. Non perciò di tutto il passato umano, ma soltanto di quella frazione che è dato ricostruire in base alle testimonianze pervenute all’uomo di “dopo” (e che quest’ultimo sia in grado di interpretare). Se teniamo presente che protagonista della storia è l’uomo, e che quanto per noi appare un passato fu in realtà un presente vissuto da generazioni trascorse (e per altre addirittura un futuro), non pare azzardato sostituire al termine “passato umano” quello di vita già vissuta, ed affermare che la conoscenza storica, è evocatrice di vita. Ma evocare la vita trascorsa, giudicarla, è ampliare le proprie esperienze, è uscire dalla finitezza dell’ “hic” e del “nunc“, proprio di ciascun io. Con ciò, la conoscenza storica si converte sempre in insegnamento di vita, inteso ovviamente non quale ricetta per estrapolazioni future. La definizione di storia che è stata avanzata poggia su due elementi: le testimonianze lasciate dal passato e l’attività intellettuale compiuta dall’uomo di “dopo”. Contrariamente a quanto sostenuto dalla concezione propria del Positivismo, che nello sforzo di conferire il massimo di scientificità alla storia esaltò il valore delle testimonianze a scapito dell’attività intellettiva dell’indagatore, si ritiene che alla conoscenza storica siano indispensabili entrambi gli elementi anzidetti, con l’avvertenza però che l’indispensabilità di ciascun elemento non ne comporta la sufficienza. L’esaltazione dell’uno a scapito dell’altro conduce alla cosiddetta “storia filologica”, che è erudizione, ovvero alla storia romanzata frutto di fantasia. I motivi della presente affermazione risulteranno più chiari dal prosieguo della trattazione.
Le fonti storiche
Con termine proprio delle discipline storiografiche, le testimonianze del passato sono denominate “fonti storiche”. Per “fonti” si intendono quindi tutti i materiali che, dando in qualsiasi modo notizie del passato, pongono le basi per la sua conoscenza. Fonti storiche sono state classificate in vari modi dagli studiosi: in monumenti e documenti, in avanzi e tradizioni, in resti e ricordi, in testimonianze ecc., a loro volta suddivisi in sotto categorie. Considerato lo scopo del nostro lavoro e tenendo conto altresì della funzione veramente pratica di ogni classificazione, al fine di evitare inutili disquisizioni nozionistiche, ci pare che la distinzione più evidente sia quella che discende dall’apparenza esterna. n base a tale criterio, si avranno: fonti materiali o resti (monumenti, opere della fortificazione, armi, ecc.); fonti scritte (leggi, trattati, sentenze, verbali, direttive, ordini d’operazione, proclami, cronache, diari, memorie, relazioni, ecc.); fonti figurate (quadri, fotografie, carte geografiche e topografiche, schizzi, ecc.); fonti orali (tradizioni, canti, ecc.). Per noi, particolare importanza rivestono le fonti scritte e, quindi, solo per queste ultime preciseremo che sono comunemente suddivise in documentarie e narrative. Nelle prime è presente un carattere di ufficialità che manca nelle seconde, frutto di elaborazione personale. La ricerca, la valutazione, il confronto delle fonti costituiscono grave ed impegnativo travaglio poiché richiedono nel contempo conoscenze scientifiche e linguistiche, nonché rigore logico e potere critico per discernere il vero dall’approssimativo o dal falso.
L’argomento della raccolta e della critica delle fonti sarà svolto, pur nei modesti limiti consentitici, nel successivo sviluppo della trattazione. In questa sede preme porre in rilievo che l’intelaiatura della storia, la ricostruzione degli eventi, poggia su un accurato lavoro di analisi, reso possibile dalla disponibilità di fonti attendibili e comunque vagliate, criticate, raffrontate. La evocazione del passato non può prescindere da tale accurato lavoro di analisi, pena altrimenti di trasformarsi in storiografia sbrigativa e fantasiosa. Del resto, l’interpretazione, il giudizio che corona la fatica dello storico non potrebbe esprimere il vero di un fatto se esso non fosse stato prima correttamente configurato.
Le fonti sono dunque indispensabili alla storia: né la loro disponibilità, né il loro accurato studio, tuttavia, sono sufficienti ai fini di una conoscenza che voglia assurgere a storia. “I documenti restaurati, riprodotti, descritti, allineati, restano documenti, cioè cose mute“, ammonisce Croce nella sua polemica contro quelle concezioni storiografiche che proclamavano essere compito dello storico “ritrovare” la storia nelle fonti senza nulla aggiungere di proprio. Esse non costituiscono la realtà oggetto di indagine, ma sono il semplice pur se indispensabile tramite per pervenire alla vita trascorsa, nostro reale obiettivo. Né la loro scrupolosa raccolta, né l’estrema cautela critica sono sufficienti a farci ritrovare questa vita. A tal fine, occorre vincere l’esteriorità della fonte e della testimonianza che rimangono sempre nel loro carattere di un “si dice” o di un “è scritto”, e non diventano verità nostra, che val quanto dire prodotta da noi, sulla nostra esperienza interiore.
La conoscenza storica, insomma, non può scaturire che dalla compenetrazione dell’elemento intellettivo, dato dall’accurata analisi delle fonti, con l’elemento intuitivo – rappresentativo, dato dalla loro rielaborazione interiore.
La contemporaneità della storia.
Secondo un noto pensatore, la compenetrazione, cui dinanzi si è accennato, fra elemento intellettivo e elemento intuitivo – rappresentativo, affinché si realizzi ha bisogno di un innesco e da innesco può fungere soltanto un interesse della vita presente, un problema dell’oggi, un bisogno contemporaneo. Senza un bisogno, un problema, un interesse, che urga nell’animo dello storico (sia esso indagatore, sia semplice lettore) lo studio delle vicende trascorse potrà portare alla nozione e all’erudizione, non alla conoscenza storica. E solo per un interesse del presente che la storia diviene effettivamente evocatrice di vita, vita che scaturisce a sua volta dalla vita dello scrittore o del lettore. Nella conoscenza storica, quindi, si attua un processo di unità sintetica fra passato e presente, con il risultato che ogni valore storico, sia esso di ieri come di mille anni addietro non è a se stante cioè non ha valore definito e materiale ma ha un valore individuale che nasce da un bisogno dell’oggi. II collegamento fra passato e presente, efficacemente espresso dalla nota proposizione crociana “ogni vera storia è storia contemporanea”, modifica sostanzialmente il concetto di storia. Da fredda memoria di fatti del passato, essa si converte in “un presente produrre del nostro spirito”, con la conseguenza che come non esiste storia fatta solo con i documenti, così non esiste storia fatta una volta per sempre: la storia è sempre pensiero, è sempre rielaborazione del nostro io e, in conseguenza, è sempre prodotto del presente dal quale scaturisce. II carattere ideale di contemporaneità dà un ulteriore spiegazione sul perché l’uomo sia portato ad indagare sul proprio passato: da sempre egli ne ha sentito l’utilità quale tipo di conoscenza che soddisfa bisogni e che risolve problemi del suo presente. II soddisfacimento di un bisogno, la chiarificazione di una situazione, la risposta ad un interrogativo, conferiscono alla storia una funzione “preparante” (anche se indeterminante) rispetto all’azione che ci si accinge a compiere. Con ciò si salda lo iato tra sfera del conoscere e sfera del fare, fra storia come pensiero e storia come azione. Ma non basta. Il concetto della contemporaneità della storia pone in luce l’erroneità di alcuni nostri atteggiamenti. In particolare, come non ha ragion di essere lo scarso interesse per avvenimenti del remoto passato, poiché l’unità sintetica che si realizza nel nostro spirito annulla ogni distacco cronologico, altrettanto errato è un certo agnosticismo per i problemi del presente, specie di carattere politico. Poiché non ci si può proficuamente addentrare nel passato qualora ci si estranei dal presente, è consequenziale affermare che per acquisire quella cultura storica che si ritiene indispensabile alla formazione di Quadri direttivi, è necessaria un’attiva partecipazione intellettuale alla problematica anche politica dei propri tempi. La conclusione cui si perviene, pur se può apparire paradossale, è che per addentrarsi nel passato occorre prima conoscere il proprio presente. Prima dunque il presente e poi il passato.
Caratteri della conoscenza storica
II particolare oggetto d’indagine, il particolare modo di instaurarsi del rapporto conoscitivo, rendono la conoscenza storica non assimilabile a quella scientifica e conferiscono alla prima natura, artistica e scientifica insieme e proprie finalità. Ciò premesso, viene naturale chiedersi quali siano i fattori intrinseci che distinguono e differenziano la conoscenza storica da quella scientifica “strictu sensu”. L’interrogativo non è che un aspetto di una questione più ampia: la classificazione delle scienze in generale e, in particolare, la critica della ragione storica, ossia l’analisi critica dei poteri conoscitivi dell’uomo applicati alle scienze storico – sociali. Notiamo per primo che in storia la realtà osservata, oltre ad essere non diretta e non assoggettabile ad sperimentazioni, non è qualcosa di nettamente separato e di diverso da chi lo osserva, come lo è il mondo della natura, ma è una realtà simile a quella dell’osservatore. Tuttavia, proprio per l’affinità che lega l’osservatore alla realtà osservata, affinità che rende la storia non muta e non estranea a noi come lo è la natura, il primo può immedesimarsi nella seconda e mediante un processo d’intuizione ricrearla e riviverla come esperienza interiore. “In base alla pienezza della propria esperienza vissuta – afferma Dilthey che per primo rivelò il fenomeno – si può riprodurre e comprendere, mediante una trasposizione, l’esperienza vissuta al di fuori di noi”. La teoria del Dilthey, pur se non andata immune da critiche incontrate sulla conseguente preminenza data al momento intuitivo, è indubbiamente suggestiva. Occorre tenere presente però che il significato di istituzioni, idee e valori va adattato a quello dell’epoca (e a volte anche del luogo) cui si riferiscono. Ad esempio, i concetti di libertà e di democrazia propri dell’epoca medioevale hanno un contenuto diverso dagli attuali e senza una loro giusta messa a fuoco, la comprensione della vita dei Comuni italiani risulterebbe distorta. La conoscenza storica quindi, dovendo tener conto delle diversità proprie del passato deve sempre avere carattere prospettivistico. La contemporaneità è soltanto ideale. Secondo elemento differenziatore è che la storia è individuante e non “generalizzante”. Ciò vuol dire che mentre le scienze della natura si occupano delle specie e dei generi – costruzioni astratte, risultato degli invarianti osservati – e sono perciò dette “generalizzanti” o “nomotetiche” la storia riguarda l’uomo nella sua individualità concreta e l’evento storico nella sua singolarità. Ne consegue che i fatti storici, avendo a protagonisti gli uomini nella loro individualità e concretezza, sono unici e irripetibili. E poiché ogni legge intesa in senso scientifico definisce una relazione di invarianza, la conoscenza storica non può pervenire alla loro formulazione. La storia è un sapere idiografico rivolto alla caratterizzazione accurata di un evento o di una serie di eventi. E però da notare che: – nella ricostruzione del passato lo storico fa ricorso a leggi tratte da altri campi del sapere, quali la psicologia, l’economia, la sociologia; -i vari fatti storici possono presentare ripetizioni analoghe, scaturite da forze operanti con una certa regolarità e automatismo. Il loro rilevamento consente di avanzare generalizzazioni, dette costanti, le quali, pur non avendo ovviamente né il rigore né la validità universale delle leggi scientifiche, possono sia agevolare la comprensione di avvenimenti analoghi sia indirizzare nell’azione. Terzo elemento differenziatore della storia il diverso valore de principio di causa. Il rapporto causale inteso quale nesso che lega necessariamente due fenomeni successivi nel tempo, di cui uno – precedente – è “causa” dell’altro, non può essere applicato nella conoscenza storica. A parte che in storia le cause sono sempre plurime e che a volte si manifesta il fenomeno detto della “eterogenesi dei fini” (la reazione cioè si presenta diversa o addirittura opposta a quella che l’azione si era proposta), la “causa” può essere riconosciuta valida soltanto nel contesto di concezioni rette da un rigoroso meccanicismo. Ma noi dobbiamo considerare l’uomo svincolato da processi necessari (nel senso che non possono essere diversi) e quindi inevitabili. In storia occorre rifiutare la categoria della necessità. Ragionare differentemente significa privare l’uomo della sua libertà (e quindi della sua responsabilità), nonché ammettere la possibilità di previsione certa a dell’avvenire quanto meno prossimo. Il termine “causa”, pertanto, va inteso in storia soltanto convenzionalmente per indicare la situazione che ha reso possibile e probabile l’evento stesso per il cui porsi in essere, però, determinante è stata la volontà dell’uomo, la quale, pur se condizionata dalla situazione anzidetta, non ne era necessitata, ma rimaneva libera. In sintesi, nella conoscenza storica il termine causa vale per “condizione”; sconfessione quindi del concetto e non della parola, con la conseguenza sostanziale pero che in storia nulla può essere considerato inevitabile e che sono da respingere le concezioni storiografiche basate su un rigido determinismo.
Le forme della storia.
Le narrazioni storiche scritte appartengono a quel genere della prosa che si chiama narrativo, della cui prima categoria o partizione – detta appunto storica – fanno unicamente parte, mentre alla seconda , detta fantastica, appartengono la novella, il romanzo. Gli anzidetti componimenti possono assumere diversi aspetti, essere redatti in diversi modi, dai più semplici ai più complessi, ognuno dei quali dà origine a una particolare forma della storiografia o, più semplicemente, della storia. Sotto l’aspetto formale, pertanto, si hanno “la cronaca”, “gli annuali”, “i commentari” , le opere storiografiche vere e proprie. In particolare:
a. la cronaca è la primordiale e più umile forma della narrazione storica; una nuda registrazione dei fatti come sono accaduti, quasi giorno per giorno, compilata in base al loro ordine cronologico, prescindendo dalla loro significatività e dai nessi che li legano .Appartengono a tale genere la famosa “Cronaca del Monastero Cassinese” e quelle – che costituiscono, fra l’altro, importanti documenti della nostra letteratura – dei fiorentini Dino Compagni e Giovanni, Matteo e Filippo Villani, nonché i famosi “Diarii” del veneziano Martin Sanudo che in 58 volumi registrò gli avvenimenti della vita veneziana fra il 1496 ed il 1533.
Le cronache hanno oggi perduto molto della loro importanza e pochi, quindi, sono gli scrittori cronachisti, sostituiti dai loro diretti discendenti moderni, i cronisti della stampa d’informazione. Talune forme particolari di cronaca, tuttavia, sopravvivono e ne sono esempio i “diarii storici” delle unità militari. Atteso il loro carattere informativo, e le molte notizie spicciole che contengono, i diarii, le cronache, i giornali, ecc. sono riguardati dagli studiosi, più come fonti che come forme della storia.
b. Gli annali presentano analogie con le cronache in quanto, come quelle, hanno forma dimessa e seguono rigorosamente l l’ordine cronologico, registrando i fatti anno per anno. La loro origine risale ai più antichi tempi di Roma, quando era costumanza che i sacerdoti registrassero anno per anno, negli “Annales Pontificum” i nomi dei magistrati e le date degli avvenimenti di maggiore importanza. II più insigne esempio che vanti la nostra letteratura in questo genere sono gli “Annali della storia d’Italia” di Lodovico Antonio Muratori (1672-1750). c. I commentarii si avvicinano di più alla storia vera e propria, cui apparecchiano, per così dire, la materia da elaborare, poiché consistono nell’esposizione, sia pure semplice e piana, di avvenimenti ben determinati nel tempo e nello spazio. Ne sono esempi famosi la “Anabasi” di Senofonte, che narra le vicende di una epedizione di 1000 mercenari greci assoldati nel 401 a.C. da Ciro il Giovane, di cui fu a capo nel periodo più critico lo stesso Senofonte, nonché i “commentarii della guerra gallica” e “commentarii della guerra civile” di Caio Giulio Cesare. Nella letteratura dei nostri tempi, apprezzati sono i “commentarii della rivoluzione francese” di Lazzaro Papi (1763-1834). Come si vede dagli esempi su citati, i commentarii vengono in genere compilati, si potrebbe dire “sul tamburo”, dai protagonisti o dai partecipanti ai fatti descritti o, quanto meno, dai contemporanei. A conclusione, ritornando sul concetto di cronaca, ci pare non inutile riportare quanto asserito da Benedetto Croce sul particolare argomento. Secondo l’illustre pensatore,la cronaca altro non è che mera narrazione, frutto di un atto di volontà inteso a tramandare i fatti del passato , e ciò la rende del tutto diversa dalla storia,che è atto di pensiero. A suo dire, ogni altra definizione di cronaca, ogni altra distinzione fra cronaca e storia (come quella secondo la quale la cronaca è il ricordo dei fatti individuali, privati, non o poco importanti, mentre la storia è il ricordo dei fatti generali, pubblici e importanti) è falsa perché cronaca e storia non sono distinguibili come due forme di storia che si completino a vicenda, o che siano l’una subordinata all’altra, ma come due diversi atteggiamenti spirituali. “La storia è la storia viva; la cronaca è la storia morta; la storia, la storia contemporanea, la cronaca della storia passata ; la storia è precipuamente un’atto di pensiero, la cronaca un’atto di volontà. Ogni storia diventa cronaca quando non è più pensata, ma solamente ricordata nelle astratte parole che erano un tempo concrete e la esprimevano…” come queste asserzioni, la distinzione tra cronaca e storia si sposta dal piano materiale all’atteggiamento spirituale del compilatore (e del lettore), sicchè, a seconda di tale atteggiamento, vi può essere un’opera convenzionalmente chiamata di storia che in realtà è cronaca, mentre all’inverso una cronaca può assurgere al valore di storia.
Le partizioni della storia.
Nel linguaggio corrente il termine “storia” si riferisce alla narrazione di eventi politici, ma in realtà la storia ha per materia il passato umano, nella sua pluridimensionalità spirituale e materiale, e nella infinita varietà delle sue manifestazioni. I già accennati concetti di selezione e di contemporaneità , rispondenti sia alla finitezza della mente umana sia all’esigenza che la conoscenza storica trovi innesco da un bisogno della vita pratica, fanno si che la realtà storica non possa essere riguardata nella sua totalità ma sotto determinati aspetti.
Le molteplici angolazioni sotto le quali la storia può essere esaminata sono riunibili in base a due criteri generali:
– il criterio della qualità (ad esempio storia delle religioni, della filosofia, dell’arte, ecc.) che dà origine alle cosiddette “storie speciali”, delle quali fa parte la storia militare; – il criterio dell’ordinamento temporale-spaziale (ad esempio, storia d’Europa, di Roma antica, della Germania moderna). Dà origine a “storie universali” o a “storie generali”, riguardanti avvenimenti di un solo popolo o di un determinato periodo, ovvero a “storie particolari”, se le opere si riferiscono ad un solo avvenimento o ad una serie di fatti strettamente connessi. I due criteri anzidetti possono variamente incrociarsi, sicchè ad esempio, si può avere una storia speciale riguardante un solo periodo ed un solo popolo, quale la storia dell’arte militare italiana nel Rinascimento. Le classificazioni ora riportate hanno so tanto valore di nozione e quindi di scarsa rilevanza. Quanto invece preme porre in rilievo che la partizione della storia in storie speciali non può significare la separazione di queste ultime dal tutto che le comprende, bensì soltanto la loro distinzione nel quadro della sostanziale unità della storia senza specificazioni. Sull’ argornento si tornerà allorchè tratteremo della storia militare.
Relazioni fra storia e storiografia. La funzione dello storico.
E’ già stata rilevata l’ambiguità del termine storia, con il quale può indifferentemente intendersi sia il passato, sia il pensiero che si ha su di esso, ossia la sua conoscenza. L’ambiguità nasce dalla trasposizione come fatti oggettivi delle esposizioni delle vicende del passato compiuta dallo storico a conclusione del suo lavoro di indagine e di ricostruzione. Questa ingenuità acritica deriva dalla presenza di un nesso indissolubile che lega la storia alla storiografia. Infatti, l’esistenza della realtà storica quale vita vissuta dalle generazioni che ci hanno preceduto è indubbia; altrettanto indubbio però è che, senza l’attività di chi esamini le testimonianze da essa lasciate, le colleghi organicamente ed esponga il risultato del suo studio, nulla di essa possiamo dire, se non postularne l’esistenza. In sintesi, senza la conoscenza, il passato per noi è come se non fosse esistito; solo una dimensione del tempo, priva di connotazioni che la concretino. II fenomeno è efficacemente delineato da Hegel là dove afferma che: “gli spazi di tempo (possiamo immaginare che siano secoli o millenni) i quali sono trascorsi per i popoli prima che essi abbiano cominciato a scrivere la storia, e che possono essere stati colmi di rivoluzioni, di migrazioni, di mutazioni fra le più violente, sono senza una storia perché non offrono alcuna narrazione”. L’accentuazione dei nessi che legano la storia alla storiografia ha consentito a qualche pensatore di asserire la coincidenza fra l’una e l’altra. Pur non accettando questa identificazione, dobbiamo riconoscere che lo storico svolge un’attività e insopprimibile funzione, funzione sufficientemente emersa si ritiene da quanto esposto sinora, specie in merito alla selezione dei fatti e alla indispensabilità ma non sufficienza delle fonti. Sorge però a questo punto un interrogativo: l’attiva presenza dello storico, nel conferire alla nostra disciplina una nota di soggettività, non la priva conseguentemente di “scientificità”? All’interrogativo fu risposto affermativamente nel secolo scorso da parte del movimento positivistico (nato dall’esaltazione mistica della scienza in genere e della fisica in particolare) il quale proclamò che la personalità dello storico non deve mai comparire, bensì dissolversi nella ricostruzione realizzata con i mattoni delle testimonianze certe. I risultati furono deludenti: fu una storia fatta con le forbici e il barattolo di co11a . Infatti, a parte che “anche lo storico comune e mediocre il quale crede e pretende di non comportarsi che ricettivamente, sola abbandonandosi al dato, non passivo col suo pensiero: egli porta con sé le sue categorie e attraverso esse vede l’oggetto” ; a parte che anche le fonti documentarie non sono pura riproduzione fotografica della realtà , il ricercato annullamento della figura dello storico priva la storiografia della sua stessa essenza, il pensiero, e rompendo il rapporto fra passato e presente, la priva altresì di risultati pratici perché la rende non più rispondente a bisogni contemporanei. Ma allora, l’attiva e insostituibile partecipazione dello storico rende il giudizio storico soggettivo e variabile nel tempo? L’interrogativo è fondamentale perché dalla sua risposta discende ciò che dobbiamo intendere per verità in storia. Anche se ciò può lasciare perplessi data l’ansia di assoluto sempre presente in noi, non possiamo non rispondere affermativamente: il giudizio storico é soggettivo e variabile. II giudizio storico in perpetuo divenire; se, come si visto, il giudizio su un fatto può variare per il modificarsi delle conseguenze generate dal fatto stesso, in linea più generale non é mai statico, definitivo e definibile ab aeterno cosi come non statico e non definitivo il presente da cui promana. II giudizio storico è sempre soggettivo ma la soggettività non ne esclude l’obiettività, così come non esclude l’obiettività, pur essendo soggettiva, la sentenza di un giudice. E’ che ogni conoscenza può essere considerata obiettiva soltanto nell’ambito di un determinato sistema e nel nostro caso l’obiettività é data non soltanto dallo scrupoloso vaglio delle fonti e dal controllo del momento intuitivo – rappresentativo affinché non sconfini nella fantasia (“l’esattezza un dovere morale” stato scritto) ma anche dal fatto che i criteri cui si attiene lo storico nella sua attività non sono né frutto di scelte personali né atti arbitrari: scaturiscono dalla società in cui egli immerso, dall’epoca in cui egli vive. In una parola, dalla stessa storia. A conclusione si può pertanto affermare che il pensiero dello storico è insopprimibile, pena privare la storia della sua storicità, sicchè – come si è già proclamato “prima il presente e poi il passato” -ora si può asserire: “prima la conoscenza dello storico, poi della storia che egli ci espone”.
In storiografia non esiste un’opera definitiva; tutte concorrono ad una ipotetica definizione ma nessuna la raggiunge. La definizione (nulla più da dire, da obiettare, da modificare) “è un mito”, però suscitatore di pensiero e quindi di vita.
La filosofia della storia.
Il termine filosofia nell’ambiente militare ha sempre suscitato (e suscita tuttora) ripulsa o quanto meno diffidenza. Tuttavia, pur se in estrema sintesi, pare necessario parlare di filosofia della storia, sia perchè non sono assimilabili confusioni tra storia e filosofia della storia, sia perchè futuri uomini direttivi non possono essere privi di qualche nozioni su concezioni che – parafrasando un celebre detto di Napoleone – si sono trasformate in marionette. Se, infatti, come è stato asserito e come noi crediamo, la guerra scontro di forze morali, le ideologie nate dal seno della filosofia della storia hanno fornito ai combattenti, dalle lotte fra Impero e Papato al conflitto vietnamita, una giustificazione ed un ideale, convertendosi pertanto in forze morali.
Cosa deve intendersi per filosofia della storia? Con espressione sintetica si può rispondere che è I’attività speculativa svolta sull’ intero corso degli eventi umani per trovare una ragione ed un fine che li spieghino e li giustifichino.
Dalla definizione traspaiono le fondamentali differenze esistenti fra storia e filosofia della storia: la prima si interessa soltanto di quella frazione del passato che ha lasciato di sè testimonianze, al fine di ricostruirla; la seconda tende a valutare la storia nella sua totalità, e quindi anche nel suo svolgimento futuro, allo scopo di individuarne il piano di sviluppo e di indicarne il fine. Estensione ed obiettivo, quindi, differenziano sostanzialmente la storia dalla filosofia della storia e fanno sì che quest’ultima a rimanga estranea ai nostri specifici interessi. Non tratteremo pertanto l’argomento ma ci limiteremo ad alcune considerazioni di carattere generale, soffermandoci successivamente sul concetto di svolgimento, scaturito dal pensiero di Hegel sulla storia. Con giudizio di carattere generale possiamo affermare che le varie concezioni filosofiche della storia soddisfano a due innate e spesso inconsce esigenze del nostro spirito: la ricerca di un ordine, di un fine, nella vita delle generazioni, che coinvolga la partecipazione dei singoli, si da dare un senso alla vita di ognuno e, inoltre, la tendenza umana a ridurre il complesso al semplice, il molteplice all’unico, anche per il convincimento che semplicità e unità siano garanzia di verità. Sotto l’aspetto pratico, però, a parte che individuare un fine nella storia si traduce nell’indicarne il traguardo, cioè la fine, è proprio nella semplicità e nell’ unicità nonchè nel rigido schematismo che ne deriva l’origine di storture e forzature presenti nelle varie filosofie della storia. Occorre tener presente che la storia è campo di forze eterogenee e l’evento storico non è un processo unitario ma, secondo l’efficace espressione di N. Hartmann, è un processo stratificato, cioè risultante dalla sovrapposizione di tutti quanti gli strati della realtà. Annullare questa “stratificazione” dissolverne la pluridimensionalità in un unico principio assoluto significa trasformare la realtà in mito.
E le filosofie della storia, come tutti i miti, hanno avuto una potente forza di suggestione sulle masse. Al riguardo, basterà ricordare che la considerazione hegeliana della civiltà germanica quale incarnazione dello spirito dei mondo e culmine della storia cosmica ha dato esca alla teoria del “popolo di dominatori” fatta proprio dal Nazismo, ed il miraggio di una società senza classi offerto dal materialismo storico, trasferendo il Paradiso dal cielo alla terra, ha conferito valore di religione all’ideologia marxista, che è insieme una filosofia della storia ed un programma d’azione. Non si può dimenticare in ultimo che varie filosofie della storia, assunte a base ideologica da alcuni Regimi, hanno fatto si che il rifiuto dell’ideologia politica potesse essere giudicata un porsi fuori dalla storia e contro la storia. L’opposizione ai Regimi veniva a convertirsi in opposizione ed attentato al destino stesso dell’umanità, offrendo così una base giustificativa ad ogni forma di repressione.
Il pensiero di Hegel sulla storia.
Tra i pensatori che nel secolo scorso hanno indagato sulla storia, il filosofo tedesco G.F. Hegel (1770-1831) occupa un posto di eccezionale rilievo. La ragione è duplice: in Hegel ha trovato per la prima volta compiuta formulazione il concetto di svolgimento storico; a Hegel hanno attinto concezioni e ideologie che hanno turbato il mondo e tuttora lo agitano. E per questi motivi che, pur nei limiti dei corso e quindi ommettendo I’esposizione del suo sistema filosofico, si darà un cenno del suo pensiero sulla storia.
Per Hegel, la storia “è I’immagine e l’atto della Ragione”; non è cioè soltanto espressione di razionalità ma è lo stesso suo concretarsi. Dalla Ragione, pertanto, deve serbare forma e cadenza. Da questa identificazione fra Ragione e Storia derivano due importanti conseguenze. La prima è che, scoperta la legge che governa la Ragione, è possibile individuare quella che presiede alla Storia. Ebbene, Hegel ritiene di averla scoperta nella “dialettica”, termine da lui usato nel senso di una nuova forma di logica, detta appunto della Ragione, o del concreto. Mentre la tradizionale logica aristotelica-tomistica consente di ragionare sulle matematiche, costruzioni astratte della nostra mente (e perciò è detta dell’intelletto o dell’astratto) il procedimento dialettico, proprio della Ragione, consentirebbe di indagare sulla realtà concreta, perchè imperniato sul superamento delle contraddizioni e dei limiti che sempre si presentano alla mente impegnata in tale tipo di indagine.
Il procedimento dialettico comporta tre momenti, chiamati per consuetudine: tesi, antitesi, sintesi. La tesi afferma; l’antitesi nega quanto è stato afferrnato; la sintesi supera la contraddizione creatasi e, innalzandosi su entrambi i termini precedenti, conserva e concilia in una sfera piu alta quanto era affermare dalla tesi e negato dall’antitesi. La sintesi realizzata si pone quale nuova tesi e da l’innesco ad un nuovo processo dialettico.
Questa, secondo Hegel, la cadenza della Ragione e poichè la storia ne è “l’immagine e l’atto” , anche il suo divenire – egli afferma – deve essere un divenire dialettico, sicché nel suo pensiero la storia universale diviene la dialettica vivente. La realtà non è infatti qualcosa di immobile e fisso, ma è un eterno processo determinato da continue contraddizioni e da risoluzioni continue di queste contraddizioni; più precisamente, la realtà non può mai ridursi ad una semplice tesi, ad una pura affermazione, e non può vivere se non nel porre la sua antitesi, la sua negazione e nel superarla in una sintesi che importa a sua volta una tesi nuova, un’affermazione più alta, dopo la quale riappare necessariamente il momento negativo e così via.
Nell’eterno dinamismo della realtà, regolato da questa dialettica di opposti, c’è di fermo solo la certezza che, attraverso questo faticoso cammino di scissioni e di ricomposizioni, è la razionalità che si fa strada nel mondo.
Giungiamo così alla seconda conseguenza dell’asserita identificazione fra Ragione e Storia: il reale razionale, sicché accade tutto ciò che deve accadere, che è giusto e razionale sia. Certo, dal punto di vista degli individui, spesso non è così, ma la storia non va pensata dal punto di vista dei singoli, bensì della Ragione, dell’Assoluto. Come già la Provvidenza agostiniana o vichiana, così la Ragione di Hegel si serve di uomini per attuare i suoi disegni, e può ricorrere anche alla guerra che, se è un male per gli individui, non lo è per la vita della Ragione. Nè è casuale o comunque irrazionale l’esito dei conflitti, che anzi – per Hegel- essi sanciscono sempre la vittoria di quel “popolo eletto”, in cui la spiritualità ha più forza, più voce, più diritto di imporsi per insegnare agli altri i valori della razionalità e della libertà. La storia del mondo è anche il tribunale del mondo. Quando il popolo dominatore ha compiuto la sua missione, decade e torna nell’oscurità per lasciar posto ad un altro popolo che va incontro allo stesso destino. Questo – per Hegel- è il ritmo della storia. Così, dal dominio dei popoli orientali, dove uno solo era libero (il monarca), si passa al mondo greco-romano in cui molti erano liberi, per giungere ai popoli germanici in cui tutti sono liberi, fase definitiva della storia, nella quale l’Assoluto prenderà corpo in una forma di Stato perfetto, alla quale si avvicina, secondo Hegel, lo Stato prussiano della Restaurazione. Il sistema hegeliano è stato sottoposto ad acute critiche. Fra l’altro, è stato giustamente osservato: altro è dire che i fatti storici hanno un senso ed un intrinseca logica ed altro è sostenere che essi sanzionano sempre la affermazione di una superiore razionalità, che la vittoria è sempre del popolo più avanzato. Se così fosse, parrebbe di poter concludere: “chi vince ha ragione” e non più solo “vince chi ha ragione” . Quanto conta sarebbe il fatto compiuto e il metro di giudizio diverrebbe il successo. Nonostante critiche e opposizioni, il pensiero di Hegel ha operato attivamente nel mondo ed è tutt’altro che esaurito. La molteplicità delle possibili interpretazioni, soprattutto in chiave politica, ha fatto sì che la sua dottrina sia rinata sempre dalle proprie ceneri in una nuova forma. In questa sede ci si limiterà a qualche cenno alle concezioni del materialismo storico (Marx) e del neo-idealismo (Croce) che, pur lontanissime nei loro asserti, hanno entrambe attinto al pensiero di Hegel.
Il materialismo storico
Anche Marx, come Hegel è attento al “senso della storia”. Da Hegel egli mutua il procedimento dialettico, ma dal grande filosofo tedesco egli si differenzia nettamente per il materialismo, per l’attenzione – prima che alla sfera delle idee – alla sfera delle situazioni da cui le idee scaturiscono. Credere – egli dice – che l’uomo viva la sua vita secondo il pensiero e non viceversa, pretendere che “il mondo cammini sulla testa e non sui piedi”.
E’ nelle condizioni materiali degli uomini, cioè nei concreti rapporti di produzione in cui essi vivono, che secondo Marx sta la struttura della società , “ossia la base su cui si eleva una sovrastruttura giuridica e politica alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale”. E’ quindi il modo della produzione della vita materiale a condizionare il processo sociale, politico e spirituale della vita. “Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere – egli afferma – ma al contrario il loro essere sociale a determinare la loro coscienza”. In base a queste promesse, quanto era in Hegel “immagine ed atto della Ragione” diviene immagine ed atto della materia, sicché la ragione economica si sostituisce alla prima, con la duplice conseguenza che soltanto l’economia politica è la scienza atta a notomizzare la società, a controllare le forze che la governano e a suggerire i mezzi per rimediare alle sue storture, e che il processo storico deve essere interpretato attraverso l’economia. La dialettica si traduca per Marx nel superamento, mediante la lotta di classe, assunta a motore della storia, delle contraddizioni esistenti fra forma di produzione – le strutture – e le istituzioni giuridico – politiche, considerate sovrastrutture. Come Hegel, anche Marx, quindi, attribuisce massimo valore alla dialettica triadica, con la differenza però che mentre per il primo, tesi, antitesi, sintesi sono momenti di una legge d’evoluzione della realtà intesa come razionalità, per Marx esse divengono momenti di una situazione storico – economica che attraverso la lotta di classe, le rivoluzioni, le guerre, porteranno “inevitabilmente” egli afferma ad una società nuova, felice, senza classi, in cui “a ciascuno sarà dato secondo il bisogno” . L’aver fatto camminare la dialettica “sui piedi” e non più “sulla testa” porta al capovolgimento della concezione hegeliana nel divenire storico, i cui nessi sono individuati da Marx nei rapporti economici. “Tutte le lotte politiche – egli proclama – sono lotte di classe, e tutte le lotte di classe, malgrado la loro forma necessariamente politica, si aggirano intorno ad una emancipazione economica”. E’ l’esaltazione di un solo valore, quello economico, che viene ad assorbire e a relativizzare gli altri, espressi dalla tradizione triade del bello, del vero e del giusto. La storia diviene storia della lotta di classe, nella quale, usando un’efficace frase crociana “non furono se non tirannia e sfruttamento da parte degli uni e avvilimento e rabbiosa impotenza da parte degli oppressi e sfruttati”. Limitando il nostro esame a quanto interessa in questa sede, cioè alla metodologia storiografica, dobbiamo riconoscere che la concezione marxista della storia dà adito a molte perplessità. Due ne sono i più evidenti motivi. Il primo, comune a tutte le filosofie della storia, dato dall’arbitrarietà del tentativo di determinare a priori le linee dello svolgimento storico, compreso il termine, traguardo finale e insieme inspiegabile punto d’arresto. Il secondo è dato dalla preminenza del valore economico sugli altri, che ne risultano condizionati, Per contro, riportando il deciso pensiero al riguardo del grande storico tedesco Max Weber, “la riduzione esclusiva a cause economiche non è in qualsiasi senso esauriente in nessun campo dei fenomeni culturali, e neppure in quello dei processi economici. In linea di principio, una storia della banca che volesse per la spiegazione avvalersi soltanto d motivi economici, sarebbe impossibile … nello stesso modo in cui lo sarebbe una spiegazione della Madonna Sistina in base ai fondamenti economici – sociali della vita culturale dell’epoca in cui è sorta…”.
Merito di Marx, però, è quello di aver indicato un campo di ricerche ed una forza operante nella storia che sino allora erano stati trascurati. In sintesi, la storiografia deve tenere conto anche del valore economico; l’ometterne l’analisi determina una storiografia altrettanto unilaterale e irreale di quella incentrata su di esso.
E’ questo il grande insegnamento che il Croce ha raccolto da Marx, aggiungendo un quarto valore, l’utile, ai tre tradizionali.
Il neo-idealismo.
Come già per Hegel anche per Croce tutta la realtà è sviluppo; anche per Croce la dialettica è “l’anima” della realtà. Nella sua opera per noi più significativa, “Teoria e Storia della Storiografia”, la Storia è concepita quale infinito sviluppo dello Spirito, cioè di una realtà assoluta, realtà però che non è nulla all’infuori degli individui nei quali si realizza. Per Croce, quindi, soggetto della storia non è ne’ l’uomo considerato empiricamente ne’ l’uomo visto quale strumento della Ragione (o della Provvidenza) ma lo Spirito “eternamente individuatesi”: è l’individuo umano, vivente sintesi di individualità e di universalità. “Esigenza del concetto idealistico – egli afferma – che l’individuo e l’idea facciano uno e non due, ossia coincidano perfettamente e s’identifichino:…”. Lo sviluppo dello Spirito, simile all’onda provocata da un sasso in uno stagno, si attua per cerchi concentrici, di diametro sempre più vasto, che comprendono le quattro forme dello Spirito stesso, corrispondenti ai distinti modi del suo realizzarsi: l’arte, la logica, l’economia, la morale.
Nella visione crociana, pertanto, il divenire della Storia è il trapassare eternamente e liberamente, pur tra lotte, tensioni e precarie negatività , da un cerchio ad un altro più ampio; da un momento positivo ad un altro più altamente positivo, in inarrestabile progresso frutto di autodeterminazione, ossia di libertà .
Nell’ambito di ciascuna delle forme sopra citate, l’antitesi esiste, ma intrinseca al positivo e necessaria alla sua positività (non posso apprezzare il bello se non esiste il brutto). Comprendendo anche il momento negativo, in ogni fase dello sviluppo storico lo Spirito in grado di apprezzare i propri limiti e le proprie insufficienze e di superarle in una nuova positività. Per Croce – asserisce un suo illustre discepolo – “il momento negativo è il prodotto e non il produttore dello svolgimento. Non si può giudicare negativamente se non si è già al di sopra del soggetto. L’insofferenza nasce da una superiore positività”. E’ l’esaltazione della libertà e della creatività dello spirito umano, uno nella poliedricità delle sue categorie, nonché della storia, intesa come eterna ascesa verso sempre più alta positività. La storiografia è per Croce ricostruzione di questa ascesa e, in armonia a tale concezione, nell’opera citata egli precisa la natura del giudizio storico: a suo dire, esso non può essere mai “giustiziere” ma sempre “giustificatore”, in quanto suo oggetto non sono né gli individui né le passioni individuali, bensì lo Spirito nella sua universalità e realtà, dal punto di vista del quale tutto ciò che accade ha la sua ragione di essere (vds. Hegel). L’opera “Teoria e storia della storiografia”, al cui contenuto si era accennato, è del 1926 e ciò è significativo. Nella sua opposizione alla dittatura, infatti, Croce dovette riconoscere che non tutto nella storia appariva positivo e giustificato e che, comunque, la giustificazione superiore dell’inevitabilità del cammino storico non esimeva l’individuo dal prendere posizioni contro ciò che reputava negativo. Da qui, in un’altra sua famosa opera edita nel 1938, la distinzione fra la “storia come pensiero”, giustificazione della realtà storica e dell’accaduto, e la “storia come azione”, la quale può essere opposizione alla realtà storica, in nome di una coscienza morale della libertà che comanda all’uomo come agire. Tale teoria è stata da alcuni definita una “infelice incoerenza”, incoerenza tuttavia che, se apriva una falla nella compattezza del sistema crociano, faceva della contraddizione dottrinaria un nobile esempio di coerenza di vita. Dopo la guerra, le difficoltà dello storicismo crociano aumentarono: sul piano pratico, per gli orrori che essa aveva comportato; sul piano teorico, per il diffondersi dell’esistenzialismo, che contestava la possibilità di riportare la vita, l’esistenza, l’agire, sotto una categoria dello Spirito, cioè nel quadrante dell’economia. Croce ripensò al Vico, sostenitore della “terribile forza della vitalità”, della barbarie primordiale che sempre ritorna, e non poté non riconoscere l’importanza di questo “vitale”, che non è solo positivo, che non può più essere forma dello Spirito (in quanto tale sarebbe sempre positivo), ma di cui bisognava ammettere l’estraneità allo Spirito stesso e alla sussistenza al di fuori e prima dello Spirito. Morendo, Croce lasciava l’eredità del problema del “vitale” e “dell’utile”, che aveva rimesso in discussione l’intera struttura delle categorie dello Spirito e la natura del divenire storico. Questa smagliatura nell’originario ottimismo del Croce offriva nuovi spunti e nuovi problemi alla storiografia contemporanea, acuiti da alcune manifestazioni, caratterizzanti il nostro recente passato, le quali fanno anch’esse risalire le proprie origini ad Hegel. In particolare, esse hanno fatto proprio il procedimento dialettico, ponendo però quale momento essenziale della storia l’antitesi, intesa come rovesciamento radicale di ciò che esiste. E’ l’esaltazione della negazione, interpretata in chiave di opposizione all’ordine costituito e di contestazione dei valori tradizionali, assunti quali tesi. Hegel, filosofo della Restaurazione, è divenuto così un contestatore “ante litteram” ed il procedimento dialettico si è convertito “nell’algebra della rivoluzione”.
Il concetto di svolgimento.
Con la sintetica esposizione di alcune teorie che si ricollegano ad Hegel, si è voluto soltanto proiettare uno spot di conoscenza sulla genesi di alcune concezioni operanti nel mondo contemporaneo, dimostrando nel contempo l’influsso che le dottrine sulla storia esercitano sulle vicende umane, soprattutto per la possibilità di precisa interpretazione in chiave politica. Quanto premesso per porre in rilievo che al di sopra delle disparità delle impostazioni e delle interpretazioni, tutte le dottrine anzidette hanno accolto e fatto propria l’essenza del pensiero hegeliano sul divenire storico. Il procedimento dialettico ha in sé indubbi punti deboli: la monotonia e l’automatismo del suo movimento comprimono il divenire entro uno schematismo predeterminato ed obbligato, nel quale si mortificano la spontaneità e la creatività e nel quale la stessa libertà non trova più posto; inoltre, la visione sia di Hegel sia di Marx presenta l’incongruenza di arrestarsi, raggiunto un certo traguardo, in una stasi che costituisce negazione della stessa dialettica.
E’ altrettanto indubbio però che il procedimento dialettico ha messo a fuoco il principio della trasformazione continua ed ha fatto emergere una nuova concezione del corso delle vicende storiche: quella che vede tale corso quale svolgimento: svolgimento non pacifico ma risultante da crisi, tensioni, contrasti.
Il concetto di svolgimento presenta particolare rilevanza ai fini della metodologia storiografica e pertanto si ritiene utile sintetizzare di seguito alcune delle conseguenze che da esso discendono.
a. Poiché quanto si sviluppa è insieme un finire di essere ed un cominciare ad essere, ogni epoca non è soltanto l’antecedente di quella successiva ma ne è anche la matrice, sicché nel passato è la genesi di ogni presente.
b. II concetto di “svolgimento” è connesso a quello di continuità . Nella storia non vi sono fratture né materiali né ideologiche ma i passaggi sono graduali, sicché è fittizia ogni periodizzazione, intesa sia come divisione in ere e in secoli, sia in termini storici quali “rinascimento”, “barocco”, ecc. La periodizzazione, qualsiasi forma assuma, è una costruzione astratta, artifizio della nostra mente a fini utilitaristici. c. Lo svolgimento non ha velocità costante ma variabile. Inoltre, i vari settori dell’attività umana (religioso, politico, artistico, militare, ecc.), pur se connessi e interdipendenti, presentano una velocità di svolgimento propria.
Da qui l’asserito pluralismo della storia, termine indicante il fenomeno per cui ogni aspetto della civiltà (e quindi anche la sfera militare) presenta una vita distinta, pur se non separata, da quella degli altri.
Il suo svolgimento, pertanto, può risultare non sincronizzato con quello di questi ultimi. A conclusione, aggiungiamo che, se lo svolgimento avviene fra lotte e tensioni, siano esse considerate urto fra tesi e antitesi ovvero superamento di momenti negativi impliciti del positivo, la “conflittualità” non è un fenomeno di oggi ma di sempre, e la storia non mai commedia, ma sempre dramma. E poiché rivoluzioni e guerre costituiscono il culmine di questo dramma, guerre e rivoluzioni imprimono un incremento di velocità allo svolgimento che modifica profondamente la preesistente struttura della società. Ne consegue che il loro studio risulta determinante ai fini della comprensione del divenire umano.
La storia militare.
La storia militare è una storia “speciale” perché suo oggetto sono gli eventi militari del passato, che essa tende a ricostruire nel loro svolgimento e a narrare, esprimendo un giudizio. Essa è innescata in primis dagli specifici bisogni di una particolare categoria – i militari – ed attuata mediante la selezione dei fatti e l’utilizzazione di specifiche competenze. L’enucleazione degli eventi militari dal contesto dello sviluppo storico appare in contraddizione con la già asserita sostanziale unitarietà della storia. Infatti, anche se si è soliti parlare di storia civile, di storia economica, di storia delle scienze, di storia militare, ecc., di tante storie, insomma, quante sono le branche dell’attività umana, nella realtà la storia è una, e il suddividerla in classi costituisce soltanto un artifizio pratico ed una esigenza della mente. Fermo, dunque, restando che esiste una sola storia, si può affermare che non sarà mai possibile interpretare rettamente le vicende militari di una data epoca senza riferirsi alle condizioni spirituali e materiali della società contemporanea, cosi come per converso non si potrà mai comprendere l’evoluzione di quest’ultima qualora non si tenga conto dell’influsso esercitato sulla vita dagli avvenimenti militari. Ciò è tanto più vero ai giorni nostri per l’esasperato carattere ideologico e totale assunto dai conflitti, che ha esaltato i fattori dello spirito e ha fatto sì che la guerra sia divenuta l’unica attività umana che coinvolga e indirizzi verso una sola meta, senza alcuna distinzione, la totalità delle forze e delle risorse di una collettività. Per evitare visioni falsate, conclusioni deformate, occorre porre il particolare in relazione con il generale. I fatti militari pertanto non vanno considerati in sé , ma sono da porsi in relazione con la vita politica, economica, sociale, culturale del Paese e dell’epoca in cui si verificarono. E’ il concetto di relazione – che distingue ma non separa – a consentirci di superare l’intrinseca contraddizione esistente fra storia militare e storia senza specificazioni. Il concetto fu chiaramente espresso sin dal secolo scorso da alcuni storici in uniforme, fra cui il Marselli, allora insegnante presso questo Istituto, il quale, con visione anticipatrice di criteri propri della moderna metodologia storiografica, nell’opera “La guerra e la sua storia” affermò che nell’indagine sui fatti militari del passato, ovviamente di una certa consistenza e complessità, occorre aggiungere un di più. “E questo di più – egli precisò – consiste nel porre la storia militare in relazione alla generale, la milizia alla civiltà;…”. Il criterio, ormai indiscusso, è stato ribadito dall’Ufficio Storico dello SME nella pubblicazione sulla battaglia di Caporetto con espressioni di particolare chiarezza che merita riportare. “Una storia, per essere degna del suo nome e per rispondere ai dettami scientifici che la qualificano tale – si asserisce testualmente – non può prescindere nell’esame di Caporetto da un approfondito studio di tutto il complesso delle condizioni del nostro Paese dopo due anni e mezzi di guerra. Deve considerare lo stato economico dell’Italia, penetrarne la situazione sociale; tener conto di tutti i numerosi fattori di natura politica, con particolare riguardo al campo della politica interna ed a quello degli sviluppi della politica estera. Deve poter inquadrare la condotta operativa di guerra in un’epoca, nella sua epoca, intesa essenzialmente come: costume, carattere, spiritualità, concezioni morali, mentalità, forza delle tradizioni, preparazione professionale, basi educative, senso della disciplina, principi dottrinali d’impiego delle truppe, e dei mezzi bellici”. “In relazione” si è detto, “un di più” è stato scritto, ed i termini pongono sufficientemente in luce una particolarità da sottolineare: il carattere non primario ma complementare che nella storiografia militare deve avere l’esposizione degli aspetti non militari della questione esaminata. In caso diverso, si avrebbe la distorsione della sua fisionomia e l’annullamento della sua autonomia. All’estensione della materia nel senso ora proposto, occorre aggiungerne una ulteriore. Dall’acquisito concetto di svolgimento; dalla conquistata verità che la guerra è continuazione della politica, pur se con altri mezzi; dalla constatazione che la politica militare seguita e la preparazione in ogni campo cui un Paese si è assoggettato in tempo di pace sono determinanti per la condotta della guerra, discende che la storia militare non può porre a propria materia soltanto gli eventi bellici, cosi come erroneamente si è soliti credere, ma può rivolgere la propria attenzione anche a quei fatti e a quei problemi, meno drammatici ma ugualmente importanti, che in tempo di pace interessano e comunque coinvolgono la sfera militare.
In seguito alla duplice estensione nella materia e nel tempo dinanzi avanzata, la storia militare viene ad assumere la fisionomia di indagine dei vari aspetti di una società in una determinata epoca, condotti da un punto di vista militare e tutti confluenti in una prospettiva militare. Essa è solo un modo per scrivere la storia.
La storia militare nel quadro della storiografia contemporanea.
Il valore della storia militare intesa nella sua massima espressione, cioè quale storia degli eventi bellici, ha subito nel recente passato una profonda revisione. Da forze determinanti del divenire umano e quindi da intelaiatura della narrazione storica, i conflitti sono stati declassati a semplici manifestazioni dello svolgimento dello Spirito. Nei confronti della storia militare, pertanto, si è posto in atto un processo di svalutazione che, iniziatosi con Voltaire, per il quale i fatti militari erano semplici manifestazioni dello “spirito dei tempi”, è culminato con la metodologia idealistica “che – come afferma B. Croce – non solo ha ristretto il troppo largo campo che un tempo si assegnava alle cose di guerra, ma nel racconto ha infuso uno spirito di cui prima erano prive, riportandole allo svolgimento della vita spirituale in tutte le sue forme, la quale abbassa la guerra ai suoi strumenti e gli effetti loro a materia del sempre suo nuovo lavoro”.
Il fenomeno ebbe gravi conseguenze: da un lato, la storia militare andò perdendo la sua specifica fisionomia, dissolvendosi nella storia etico – politica e divenendo patrimonio pressoché esclusivo di storici civili; dall’altro, la storia militare non “interiorizzata” rimase per imprescindibili esigenze professionali quale campo di indagine degli storici militari, relegata però agli ultimi posti della storiografia, perché accusata di esaminare i fatti in sé più che nei loro nessi con la vita morale, di cui per contro la guerra era espressione e strumento.
Gli studiosi militari hanno reagito a tale situazione e in numerose opere hanno dimostrato di sapersi sollevare dal cronachismo di cui erano accusati, sia inserendo i fatti militari in una visione complessiva degli eventi, sia ricercando nelle vicende, oltre la consistenza, anche l’essenza. Del resto, non era che un ritorno, o meglio l’affermarsi, dell’insegnamento del Marselli, al quale si è già accennato. Sulla questione, però, che configura l’intera impostazione metodologica della storiografia militare, occorre procedere con cautela. La storia militare, come ogni storia, deve sorgere da un bisogno; bisogno che come posto chiaramente in luce in numerosi scritti da un insigne storico in uniforme, il Gen. Di Lauro, sorge in primis dalla stessa sfera militare, per l’esigenza che ciascuno – se vero ufficiale e non mestierante – sente di affinare la propria cultura professionale, collegando il presente al passato, che del primo è matrice e non solo antecedente. Nella ricostruzione dei fatti – sia pur tacciata di cronachismo – implicita un’indagine critica che porta a deduzioni, raffronti, valutazioni, a individuare fattori e circostanze all’origine di certe situazioni, a cogliere nel loro manifestarsi individuale e concreto, perché storicamente determinato, principi, norme, asserzioni che le branche del sapere militare presentano in forma astratta, spesso assiomatica. Tutto ciò, oltre a soddisfare un desiderio di conoscenza, consente di rivivere preziose esperienze operative ed umane: è un aspetto della funzione preparante (anche se non determinante) che la storia ha nei confronti dell’azione.
Se sotto l’aspetto pratico tale funzione è per noi irrinunciabile, sotto l’aspetto teoretico le ricostruzioni quanto più possibile obiettive dei fatti, siano pure invalidate da cronachismo, sono indispensabili antecedenti al ripensamento delle vicende nel quadro della dinamica della società e alla loro valutazione quali “strumenti della vita spirituale”. Senza di esse, il giudizio storico – atto creativo e soggettivo – viene a mancare dall’elemento concreto, condizionatore del suo valore logico: la realtà. Ciò senza contare che anche le cronache, se pensate, possono assurgere a dignità di storia. L’insopprimibile funzione di indagini non tendenti al grande affresco, ma ad “obiettivi limitat” è stata riconosciuta da un noto storico, il Prof. Monticone in un Convegno nazionale di storia militare, quando ha affermato: “Un taglio di storia militare, intesa come parte integrante di storia della società , non implica affatto la rinuncia a specifiche tecniche e a peculiari strumenti di indagine, anzi se mai ne sollecita il massimo sfruttamento e la più esperta utilizzazione; non sarà pertanto contraddittorio se, mentre mi sembra necessario un ampliamento dell’orizzonte storico – militare ai rapporti esercito – società sono altrettanto convinto della indispensabilità di ricorrere ad una più puntuale disamina di alcuni temi tipicamente tecnici…”. Vediamo allora due tipi di storia militare? La duplice tipizzazione della materia in storia militare strictu sensu, rivolta a ricostruire obiettivamente i fatti “così come sono accaduti”, e in storia etico – militare, tendente a riportare questi fatti “allo svolgimento della vita spirituale in tutte le sue forme” non pare né valida né necessaria; ovvero può apparire utile soltanto a fini didattici, risultando la prima mezzo di perfezionamento tecnico – professionale e la seconda, per il senso della totalità che conferisce alla cultura storica militare, strumento di arricchimento e di maturazione spirituale.
Sotto l’aspetto metodologico, però , sarà ciascun lavoro a qualificarsi da sé, in relazione alle finalità che si propone e al grado di conoscenza delle vicende indagate che presuppone. In conclusione:
– le vaste sintesi, i grandi quadri d’insieme, le “storie interiorizzate”, presuppongono un precedente minuto lavoro di analisi; prima quindi occorre sia accertata la consistenza dei fatti e poi si potrà procedere alla interpretazione della loro essenza; – la sfera militare in genere, e la guerra in particolare, risente come nessun’altra delle condizioni della società contemporanea, sulla quale a sua volta reagisce; vicende militari complesse, quindi, non possono essere indagate se non nel quadro delle condizioni della società.
E’ soltanto tenendo a base questi due criteri che – si ritiene – potrà. tradursi in concreto l’alto insegnamento che ci giunge dal Marselli di rifuggire “tanto dal cieco empirismo, quanto dall’astratto speculare”.