Enrico Cialdini
La nascita e la giovinezza.
Enrico Cialdini nacque alle 9 pomeridiane dell’8 agosto 1811 a Castelvetro di Modena , in località Colombarina, da Giuseppe e Luigia Santyan y Velasco. Nel 1815 Giuseppe Cialdini ebbe la nomina ad ingegnere di III classe per la provincia di Reggio, ove si trasferì con tutta la famiglia. Per questa ragione il piccolo Enrico fu mandato ad iniziare i suoi studi presso quel collegio di Gesuiti, ove nel 1823 si distinse in “grammatica”, nel 1824 in “umanità” e nel 1825-26 fu tra coloro ammessi al corso filosofico, corrispondente all’odierno liceo. La permanenza presso il collegio gesuita fu, però, breve: ne fu espulso per avere scritto sulla lavagna una formula in cui si poneva un docente uguale ad un asino. Nel 1828 si iscrisse ai corsi di Medicina a Parma. In questa città, a tempo perso, frequentò il pittore Toschi, insegnante all’Accademia di Belle Arti, assecondando così il suo amore per il disegno e la musica. Con i moti del 1831, la famiglia Cialdini si compromise con il potere ducale: Giuseppe fu costretto a rifugiarsi a Bologna, Francesco ed Enrico costretti ad emigrare. Arruolatosi nell’esercito del generale Zucchi, Enrico raggiunse Ancona e insieme allo zio e a tantissimi altri modenesi raggiunse Marsiglia. In Francia, dopo poco tempo raggiunse Parigi ove riprese i suoi studi di medicina. Condusse, però, una vita alquanto scioperata, che presto lo indusse a tentare nuove vie. Infatti decise di arruolarsi nella legione straniera che andava a combattere per Don Pedro, esponente del partito costituzionalista del Portogallo, partito che combatteva quello legittimista capeggiato da Don Miguel. Accettato l’arruolamento nell’autunno del 1832, ogni partenza fu rimandata in quanto Cialdini fu L’inizio della carriera militare e le esperienze in Portogallo e Spagna (1833-1848). Guarito, Cialdini raggiunse Oporto nel febbraio 1833, munito anche di credenziali di La Fayette che però non utilizzerà. L’ 1 marzo 1833 divenne granatiere nel 2° Reggimento di Fanteria Leggera, detto della Regina: iniziava così la sua carriera militare. Durante un anno e mezzo di guerra ebbe modo di mostrare il suo reale valore militare; passò tutti i gradi della gerarchia di sottufficiale ed il 1 settembre 1834 fu nominato luogotenente. Quando era sergente, fu fatto Cavaliere dell’Ordine di Torre e Spada, avendo la sua compagnia dato voto unanime perché gli fosse concessa tale onorificenza: un significativo segno del suo coraggio e della sua abnegazione. Nel 1835 la guerra in Portogallo ebbe termine con il definitivo trionfo dei costituzionalisti; per Cialdini questo significò por termine, per effetto dello scioglimento del suo reggimento, alla esperienza portoghese. Il comandante di questo reggimento, Borso di Carminati ricevette dal governo spagnolo l’offerta di formare un reggimento di volontari che si costituì con il nome di “Cacciatori d’Oporto”. Borso di Carminati offerse a Cialdini il grado di luogotenente ed egli accettò, entrando nelle fila del reggimento il 22 Ottobre 1835. La guerra che si combatteva in Spagna era una guerra in cui ai piccoli scontri di reparti minori si intervallavano battaglie non decisive ma abbastanza sanguinose. Nel 1836, alla battaglia di Chertù , Cialdini si guadagnò la croce di San Ferdinando, così come un’altra decorazione la conquistò alla presa di Cantaveia. Nel 1837 era già capitano ed alla battaglia di Chiva, per la sua azione di comando, fu proclamato, con Ordine del Giorno all’Esercito, benemerito di Spagna. Ottenne, inoltre, la medaglia di distinzione e fu nominato secondo comandante di battaglione per merito di guerra. L’anno successivo fu promosso comandante di battaglione. Nella guerra spagnola Cialdini divenne un soldato esperto, energico, che non rifuggiva da atteggiamenti e compiacimenti autoritari, alieno, se non ostile, ad ogni ordine o decisione che non fosse stata elaborata da uno Stato Maggiore. Sotto l’aspetto politico, il Cialdini segue le stesse sorti degli altri emigrati italiani, tra i quali Fanti, Cucchiari, Ardoino, i fratelli Durando e molti altri. Nonostante i contatti con Nicola Frabrizi e, tramite l’Ardoino, anche con Mazzini, Cialdini, come molti altri esuli, con il protrarsi della lontananza dall’Italia, allenta 1 suoi legami con la madrepatria. Questo anche in virtù della umana necessità di trovare una sistemazione sia economica che familiare più solida. Insieme al Fanti passò nelle fila dell’esercito regolare spagnolo, lasciando le truppe estere; rinunziò ai gradi e fu arruolato con il grado di luogotenente (4 Marzo 1840). Entro l’anno però Cialdini era già secondo comandante di battaglione. Nel 1841, a seguito della vicenda di Borso di Carminati, il Cialdini fu arrestato, posto in aspettativa e confinato a Barcellona; in seguito ottenne di stabilirsi a Valenza, presso il fratello Guido. Qui conobbe, e poi sposò, Maria Martinez de Leon , figlia di un illustre e possidente cittadino valenziano. A Valenza rimase poco più di un anno. Nel 1843 riprese servizio, con la reintegrazione dell’esercito e fu chiamato dal generale Narvaez ad assolvere varie missioni. All’assedio di Madrid, ancora comandante in seconda di battaglione, fu incaricato della condotta delle operazioni tra le due porte della città e, dopo 1 brillanti risultati conseguiti, ottenne la promozione a maggiore (6 agosto 1943). Nello stesso mese, con l’entrata del generale Narvaez a Madrid, ottenne la nomina a Tenente Colonnello. Istituitasi nel 1844 la “Guardia Civile”, che corrispondeva nei suoi compiti fondamentali, alla nostra Arma dei Carabinieri, Cialdini entrò in essa e vi svolse un ruolo incisivo. Il Comandante Generale, duca di Ahumeda, nominatolo “secondo gefe”, equivalente a colonello, (26 Ottobre 1847) lo inviò in missione a Parigi per studiarvi l’ordinamento della “Gendarmerie” e indicare quindi le riforme necessarie alla Guardia Civil. Durante questa missione giunsero al Cialdini le notizie degli avvenimenti e dei moti in Italia.
Il rientro in Italia.
Con l’avvento di Pio IX e il moto che si instaurò per favorire il processo unitario italiano che portò agli eventi della primavera del 1848. Con i moti rivoluzionari a Milano e con l’orientamento del governo Sardo molti di coloro che avevano lasciato l’Italia a seguito della reazione delle potenze della Santa Alleanza rientrarono per combattere contro l’Austria. Fra questi anche Cialdini. Scrive il Manfredi: Il nostro colonnello spagnolo (Cialdini) benché fosse legato con alcuna delle sette più o meno patriottiche del tempo, benché non avesse carattere da cospiratore e perciò si fosse tenuto estraneo a quel lavoro preparatorio che non poteva farsi se non cospirando, non avendo dimenticato la patria, e in quei reggimenti stranieri dove gli italiani prodi e numerosi costituivano una specialità rispettata e, militando per la Spagna intendevano addestrarsi a combattere per il loro paese, Cialdini non era da meno caldi quando si parlava dell’Italia. Ma gli incentivi di resteranno maggiori sia per lui che per gli altri. Egli non solo s’era conquistato in Spagna una posizione onorevole e oramai assicurata, ma vi si era fatto il nido, sposando la gentile figliola di un ricco banchiere Maria Martinez de Lion. Amici e parenti li si misero attorno cercando di dissuaderlo dal partire e mostrandogli la poca convenienza di lasciare il certo per l’incerto. Si aggiunga che Cialdini sentiva naturalmente un aristocratico disprezzo per i moti popolari e quelli del 1831 in cui s’era trovato involto, l’avevano confermato in questo sentimento.
Cialdini ufficiale dell’esercito pontificio.
Nonostante tutto decise di venire in Italia ed arrivò direttamente a Modena. Qui trovò una situazione alquanto fluida. Le truppe regolari erano affidate al Cucchiari e Cialdini non voleva saperne di entrare a far parte di truppe irregolari; a Modena gli si offri il comando di un corpo di Gendarmeria, ma il desiderio di Cialdini era quello di entrare in combattimento al più presto. Si recò quindi a Torino ma il Governo Sardo gli diede una risposta alquanto evasiva. A Torino, negli ambienti militari, era in auge quella mentalità che chi voleva esercitare il mestiere delle armi doveva provenire dalla Reale Accademia Militare e poi percorrere tutti 1 gradi della carriera nelle file dell’Esercito Regio. Coloro che volevano entrare nei ranghi e rivestire un grado provenendo da carriere o esperienze diverse erano visti come presuntuosi, avventurieri, anche sovvertitori della legge e dell’ordine. Cialdini non sfuggi a questa regola, che del resto ha una sua non superficiale validità. Non riuscendo a trovare un posto nell’Esercito Regio, si reco a Milano. Ma anche qui trovò fredde accoglienze in quanto 1 suoi precedenti nelle file dei realisti spagnoli erano visti negativamente. A Torino Cialdini era un rivoluzionario avventuriero e repubblicano, a Milano era un esponente della conservazione realista e codina. Fermamente deciso a trovare un posto nelle fila dei combattenti per l’unità d’Italia, si recò di nuovo nell’Emilia dove trovò accoglienza nelle fila dell’Esercito Pontifico al Comando del Durando. Qui incontrò Massimo D’Azeglio e instaurò una amica che si sarebbe rilevata quanto mai utile negli anni futuri. Nelle fila dell’esercito pontificio combatté valorosamente a Monte Berico, ove fu ferito in modo grave al basso ventre. I medici gli diedero pochi giorni di vita, ma la sua fibra resistette e in poco tempo riuscì a rimettersi. Questo anche grazie all’austriaco tenente maresciallo d’Aspre, che apprezzò il valore di questo ufficiale. L’Austriaco lo prese a ben volere e molto si adoperò per il Cialdini. D’Aspre lo considerava uno spagnolo e durante la convalescenza ebbero molto colloqui sulle guerre spagnole e sulle esperienze di guerra di quelle azioni. Appena rimessosi, d’Aspre gli diede un salvacondotto con il quale Cialdini raggiunse Torino.
Colonnello dell’esercito sardo.
Dopo i rovesci del 1848, nel Regno Di Sardegna si erano rifugiati quasi tutti i volontari che avevano combattuto contro gli Austriaci, tra cui, naturalmente anche quelli Parmensi e modenesi. Grazie alla presentazione e raccomandazione di Durando e soprattutto di D’Azeglio, il Cialdini ottenne il comando del 23° Reggimento Fanteria, composto da modenesi e parmensi. Queste truppe avevano fama di non rispettare proprio alla lettera il regolamento di disciplina e, dati anche 1 tempi, si richiedeva per loro una azione di comando energica e ferma. Cialdini seppe riportare tutto e tutti nel rispetto dei canoni militari e trasformare il 23° Reggimento in un accettabile strumento di guerra. Il Manfredi riporta due aneddoti, che ben illuminano l’azione del Cialdini. “Narrasi che una sera, mentre Cialdini si trovava a teatro, gli venne annunziato che il reggimento era mezzo in rivolta, perché i soldati volevano uscire dal quartiere e la guardia si opponeva. Il colonnello corre in quartiere, raccoglie la guardia nel cortile e dopo averla lodata ad alta voce in modo che tutti sentissero conchiuse: ” adesso ci penso io: guardia seguitemi”. Poi accompagnato da pochi uomini con la baionetta innestata e da un disarmato con la lanterna, s’avvia nei corridoi. Questi si vuotano per incanto; visita le camerate; silenzio perfetto; i soldati erano tutti sotto le lenzuola e fingevano di dormire.” Questo fatto merita di essere ricordato in un tempo in cui deplorevoli debolezze hanno dato origine alla scuola di Misdea; ma non sapemmo egualmente raccomandarne un altro: alcuni soldati si erano abbandonati ad atti di furto e di saccheggio. Cialdini a mezzo di una marcia fa deporre gli zaini ed aprirli. trova un fazzoletto di batista. Guarda la faccia al soldato che arrossisce; comprende che quell’oggetto è di provenienza furtiva. Senza far motto sfodera la sciabola la pianta in petto al ladro che cade in terra per morto. Il reggimento prosegue la via. Una altra versione dice che la rivista fu ordinata perché i soldati, per essere più leggeri, gettavano via gli oggetti di corredo e che quel tale aveva lo zaino vuoto. Ma la causa non monta; è l’atto del colonnello che, naturale forse in Ispagna, urta i nostri sentimenti e ripetuto a chicchessia oggidì avrebbe per lui conseguenze gravissime. Noteremo come cronisti che il ferito abbandonato, fu raccolto da contadini e guarì
La battaglia di Novara.
Il comportamento di Cialdini e del suo reggimento nelle giornate di Novara furono encomiabili e servirono a far accettare Cialdini definitivamente nelle fila dell’Esercito Regio. Il 230 Reggimento fanteria era inquadrato nella 2a Divisione al comando del generale BES. La divisione, il 21 Marzo 1949, fu attaccata da un corpo austriaco che, passato il Ticino a Pavia puntava su Novara. L’avanguardia della 2a Divisione attaccata ripiegò alla Sforzesca ove erano schierati il 19° ed il 23° reggimento. Cialdini infiammò, in attesa dell’inizio del combattimento, i suoi soldati con parole efficaci ed energiche. Mentre infondeva ardore e coraggio ai suoi soldati, Cialdini non era in condizioni fisiche perfette: la ferita di Vicenza si era acutizzata e qualche giorno dopo scrivendo ad un suo Zio, ebbe a confessare che fece sforzi sovrumani per tenersi a cavallo e che il reggimento “ignorava di avere alla testa un colonnello quasi morente”. Per tutta la giornata il 23° reggimento rimase con le armi al piede, esposto ai tiri nemici. La posizione era critica, ma il reggimento non si mosse ne alcun soldato diede segni di impazienza. Quando l’ordine di attaccare giunse fu accolto con fragorose evviva e compatto il reggimento avanzò combattendo; presto però giunse l’ordine di ritirarsi: la battaglia si era perduta altrove. La condotta del 23° Reggimento fu tale che fu decorato di Medaglia d’Argento al valor Militare. Pure il Cialdini fu decorato di medaglia d’argento che si aggiunse alla prima per i fatti di Vicenza.
Un dopo guerra difficile.
Nei giorni susseguenti alla sconfitta di Novara le polemiche che sempre infuriano dopo una sconfitta mettevano sotto accusa un po’ tutti, primi i fuoriusciti. Le cause non erano militari, ma la casta militare sarda era alla ricerca di capri espiatori e non si andava tanto per il sottile. Cialdini ebbe momenti di ripensamento, ed era sul punto di ritornare in Spagna. ” Ecco un piccolo fatto che poco mancò non avesse per conseguenza di far tornare il Cialdini in Spagna. Una sera a Genova fischiarono una cantante perché parente di un ufficiale austriaco (in quel tempo pareva una buona ragione); ne nacquero tafferugli. Cialdini s’imbatté per caso in un gruppo di guardie e carabinieri che maltrattavano un giovane marinaio. Mosso da naturale istinto di generosità Cialdini rimproverò gli agenti della forza pubblica, i quali davanti a un colonnello in uniforme abbandonarono 1’operazione: (quel marinaio, che Cialdini non conosceva) era Nino Bixio; ma giunti in caserma i carabinieri fecero rapporto e fu redatto un verbale di opposizione all’ARMA per parte di un colonnello. Cialdini ne ebbe dal ministero un grave rimprovero e fu posto agli arresti, per il che indispettito voleva dare le dimissioni e tornarsene in Spagna. Cedette però ai consigli di Massimo D’Azeglio che si recò appositamente da Torino a Genova per dissuaderlo e fu poi contento di aver ceduto. Cialdini rimase nelle fila dell’Esercito Regio. Il 23° Reggimento (che era provvisorio) fu sciolto e a Cialdini fu affidato il 14° Reggimento Fanteria. Iniziava quel decennio di preparazione che portò poi alla unità nazionale. Superate le polemiche frutto della sconfitta, a Torino si iniziò ad operare in senso nazionale. Le cure più assidue furono riservate all’Esercito. Qui si hanno i primi contatti tra La Marmora e Cialdini, rapporti che poi troveranno momenti di massima tensione nella campagna del 1866. Se Cialdini fu per qualche momento incerto se essere italiano o spagnolo, La Marmora fu sempre e niente altro che un piemontese. Se Cialdini era salito rapidamente agli altri gradi, la Marmora aveva volato. Il 24 marzo 1848 era maggiore di artiglieria, divenne, prima col grado di colonnello e poi di maggiore generale ministro della Guerra nel gabinetto presieduto dal generale Perrone di San Martino. La Marmora godeva in quegli anni della fiducia e del consenso non solo della Corona ma anche di tutto l’ambiente militare. Ministro onnipotente tutto inteso ad epurare il personale ristabilire la disciplina, riformare la tattica, La Marmora non tardò a riconoscere i meriti di Cialdini, come colonnello, ed ad apprezzarli e a dare prove della sua stima. La famiglia cialdini era di origine pisana. Uno Stefano cialdini, nato nel 1711 a Pisa da Girolamo e Maria Berni e sposato con Orsola Manz di Colonia, intorno al 1743 si era trasferito da Pisa a Modena, forse seguendo la nobile famiglia dei signori Frosini, sempre di Pisa, passata essa pure a Modena alla corte degli Estensi. Stefano Cialdini ebbe l’incarico di guardarobiere del Duca di Modena, incarico assunto anche dal figlio Gaetano Girolamo. Questi ebbe la fiducia del marchese Gherardo Rangone, ministro del Duca di Modena. Gaetano, che amministrò i beni ducali durante i tempi burrascosi della rivoluzione francese, ebbe tre figli, Giuseppe, Gherardo e Francesco. Modena è sempre stata orgogliosa di annoverare Cialdini tra i suoi concittadini più illustri. Questo anche in relazione al desiderio di Giuseppe Cialdini di dare al piccolo Enrico la qualifica di modenese. La mattina dopo la nascita, infatti, papa Giuseppe portò l’infante a Modena e ne denunciò la nascita all’Ufficio di Stato Civile della città e non a quello del Comune di Castelvetro. Per il battessimo, impose la stessa procedura: battezzò Enrico nella propria parrocchia, che era quella di San Michele. Per Giuseppe Cialdini il fatto che suo figlio fosse nato alla Colombarina, nella villa di campagna, era un puro caso dovuto alle circostanze, cioè alla villeggiatura estiva della famiglia.
Cfr. L’estratto dell’atto di nascita ( l0 Agosto 1811) e quello di battesimo (10 Agosto 1811) di Enrico Cialdini, riportato da T. Sandonnini nella sua opera agiografica “In Memoria di Enrico Cialdini – Notizie e Documenti, Ferraguti, Modena, 1811, pag.135-136”.
La spedizione in Crimea.
Cialdini partecipa alla spedizione in Crimea. Il decreto del 31 marzo 1855 ordina il Corpo di Spedizione Sardo nel seguente modo: un quartier generale, due divisioni, una brigata di riserva, un reggimento di cavalleggeri, una brigata di artiglieria da piazza con una compagnia di operai di artiglieria, un battaglioni di zappatori del genio, depositi e parchi di artiglieria e del genio, ufficio d’intendenza, servizio delle sussistenze, servizio sanitario, giustizia militare, servizio postale. Le divisioni ebbero solamente il nome di la e 2a Divisione, mentre le brigate quello di la, 2a, 3a, 4a, e 5a Brigata provvisoria. La forza numerica del corpo di spedizione era di 18058 uomini (1038 Ufficiali e 17020 uomini di truppa) e 3496 cavalli, con 3000 uomini in più di quello pattuito con Francia ed Inghilterra. La 1a Brigata era comandata dal maggior generale Giorgio Ansaldi, che mori a Balaclava. La 2a Brigata era al comando di Manfredo Fanti, la 4a Brigata comandata dal colonnello Rodolfo Gabrielli di Montevecchio, la 5a Brigata dal colonnello Filiberto Mollard, e la 3a Brigata, composta dal 3° Reggimento provvisorio (comandante Tenente Colonnello DEROSSI) col 3° Battaglione Bersaglieri ed una Brigata di artiglieria, era al colmando del Colonnello Enrico Cialdini. Nel marzo 1855, al Cialdini, era stato assegnato il Comando della 3a Brigata, inquadrata nel corpo di spedizione in Crimea. Le cinque brigate sarde del corpo di spedizione sardo diedero modo di distinguersi per professionalità e spirito combattivo. La 3a Brigata, però, non ebbe modo di metterlo in evidenza in nessun fatto d’armi di rilievo: infatti, assenti alla Cernaia, gli uomini del Cialdini erano designati per l’assalto finale a Sebastopoli; rimasero sempre in attesa dell’ordine di attacco generale che però non venne e Francesi e Inglesi si divisero la gloria degli ultimi combattimenti. Nonostante la impossibilità di mettersi in mostra in Crimea, Cialdini raccolse ugualmente i frutti di quella partecipazione.
Nel suo rapporto a La Marmora, Cialdini scrive:
“Giunto al campo del I corpo francese ebbi ordine ieri l’altro 7 settembre di attendarmi fra la casa detta de li Zuavi e la grande ambulanza del Corpo. Ieri, alle 11 in punto, mossi per le trincee preceduto da un distaccamento francese di 150 uomini e da 65 operai del genio, pure francesi, recanti piccoli ponti, scale, ordigni da trincea e strumenti molti; a queste truppe associai la mia compagnia del genio. L’ingombro grave esistente nelle trincee non mi permise di essere a posto agli approcci F e Fontaine, designatimi dal generale Des Salles, fino alle 2 pomeridiane. L’insuccesso dell’attacco francese sul Bastione Centrale, attacco dal cui sviluppo ed esito dipendeva l’assalto al rientrante occidentale del bastione dell’Albero (del Màt) affidato alla mia brigata, rese quest’assalto impossibile. Quindi è che invece dell’ordine di avanzare ricevetti alle 6 e 30 quello di rientrare al campo. Aborro dalla millanteria massime dopo gli eventi. Intendo perciò restringermi nei più severi limiti della verità assicurando la S.V. che il contegno della brigata fu ieri dignitosissimo e tale da dare di noi un lusinghiero concetto alle truppe francesi. E, per quanto si può argomentare dall’assetto e dalle parole io ne colsi le garanzie più rassicuranti sulla condotta che la brigata avrebbe tenuto se l’attacco avesse avuto luogo. Taccio i particolari dell’attacco che mi era affidato, la S.V. li conosce forse meglio di me; ad ogni modo potrà darglieli il capitano Lombardini. Le cortesie usateci dal I Corpo francese furono infinite, dall’alto al basso tutti ci colmarono di offerte e di gentilezze. Il generale Des Salles e l’intendente generale del corpo misero a mia disposizione ambulanze e magazzini; io però attenendomi ai di Lei ordini non accettai che legna. Sono dolente che mi sia sfuggita una altra occasione di provare quale sia la mia riconoscenza per il grado di concessioni, quanta sia la mia devozione a S.M. che me lo ha elargito e quanto il mio rispetto per l’uniforme piemontese che vado superbo di vestire”.
La brigata Cialdini ebbe in questa circostanza 38 uomini fuori combattimento; rimasero feriti 34 soldati e 4 furono i morti. Secondo il Dayala, nell’opera “Piemontesi in Crimea”, il generale Pèlissier in una sua relazione scrive: “La brigata Sarda del generale Cialdini che il generale La Marmora ha cortesemente messo a mia disposizione per rinforzare il 1° Corpo ha sopportato il terribile fuoco che s’incrociava nei nostri trinceramenti con l’imperturbabilità di vecchia truppa. I piemontesi ardevano dal desiderio di venire alle mani ma l’attacco sul Bastione del Màt non avendo avuto luogo non fu possibile soddisfare l’ardore di queste valorose truppe”. Con il suo comportamento durante la campagna, e nel clima di euforia e fiducia che regnava a Torino dopo il congresso di Parigi (1856), riuscì a diradare e fugare per sempre quel clima di diffidenza e sospetto che la classe dirigente e militare sabauda nutriva nei suoi confronti e, più in generale verso tutti gli uomini “venuti da fuori”. Cialdini, insieme a Fanti, Cucchiari ed altri conquistò un posto nella compagine dirigente del Regno di Sardegna. Il Nostro, a riprova di ciò, fu prima nominato aiutante di campo del Re, poi ispettore del Corpo dei Bersaglieri ed infine Comandante della scuola di Ivrea. Nel 1859, alla vigilia della seconda guerra di indipendenza, Cialdini ebbe l’incarico di organizzare i volontari provenienti da tutte le parti d’Italia e di inquadrarli nel Corpo dei Cacciatori delle Alpi, Corpo che poi fu dato in Comando a Giuseppe Garibaldi. Di questo periodo sono i primi contatti tra Cialdini e il partito d’Azione; non abbracciò a pieno le idee azioniste, ma mostrò molta simpatia per esse, simpatia che gli permise di conquistare spazi politici che i moderati piemontesi gli negavano. Cialdini era in ottimi rapporti con Garibaldi, pur non condividendo le idee del nizzardo sulla organizzazione ed impiego del Corpo Volontari e, più in generale, sulla teoria della guerra per bande; inoltre insanabile era l’atteggiamento verso Napoleone III: Garibaldi vedeva in Napoleone il massimo ostacolo alla reale unificazione nazionale; Cialdini invece ne faceva uno dei pochi punti fermi e di riferimento di ogni azione italiana; un po’ freddi erano i rapporti con Giuseppe Mazzini che anche nel prosieguo degli anni non tentò mai di avvicinare, colpito da colera, che lo costrinse a curarsi fino alla primavera successiva.
La campagna del 1859.
La Guerra del 1859 non vide Cialdini tra i protagonisti. Ebbe il Colmando della 4a Divisione, divisione che entrò in campagna al momento della dichiarazione di guerra; passato il confine da casale per Vercelli il 30 Maggio, si portò a ridosso di Palestro. Con un assalto vittorioso ed energico conquistò la cittadina e per questo, secondo una lettera dell’11 Giugno 1859, Cialdini fu promosso Luogotenente Generale sul campo direttamente dal Re. La vittoria di Palestro, però non ebbe sviluppi ulteriori. La divisione fu distaccata nelle valli alpine e insieme al Corpo dei cacciatori delle Alpi diede vita a combattimenti minori, di sostegno e copertura a quelli ben maggiori che ebbero luogo nella pianura. Cialdini ebbe sempre il rammarico di non aver potuto partecipare alla battaglia di San Martino. Terminata la campagna del 1859 il Cialdini si presentava come un esponente di spicco della “intellighenzia” militare sarda. Nel momento in cui la spedizione di Garibaldi in Sicilia sembrò avere successo, Cialdini fu incaricato di una delicata missione diplomatica. Il 28 Agosto, insieme al Farini, fu inviato a Chambery per sondare le intenzioni di Napoleone III sulle possibilità di intervento nel meridione. Farini trattò gli aspetti politici, mentre Cialdini curò quelli militari. Anche se la tradizione ha tramandato il noto “Faites, mais faites vite”, anche se documenti in merito non ve ne sono e sembra che la frase non fu mai pronunciata, la sostanza è che dall’incontro di Chalmbery il Piemonte ebbe via libera di scendere a sud incontro a Garibaldi.
La campagna del 1860 nelle Marche.
Persiste nella tradizione popolare delle Marche la credenza che Cialdini fu l’artefice e il protagonista assoluto della campagna che portò al passaggio delle Marche e dell’Umbria dallo stato pontificio al Regno di Sardegna. Cialdini fu uno dei protagonisti, ma molto si deve anche agli altri capi delle forze d’invasione. Comandante in capo di queste era il Generale Manfredo Fanti che aveva ai suoi ordini il generale Morozzo della Rocca, comandante del V° Corpo d’Armata, destinato ad operare in Umbria, e appunto Cialdini al comando del IV° Corpo che operò nelle Marche. La Campagna si sviluppò secondo i concetti strategici di Fanti che mirava innanzitutto a scendere il più velocemente possibile a sud per portare nel solco moderato Garibaldi, e per far questo, cercare di eliminare le eventuali forze pontificie che avessero opposto resistenza, sicuro che quelle francesi avrebbero solo presidiato il Lazio, terra che secondo gli accordi non doveva essere invasa. Materializzazione di questa strategia era la conquista di Ancona, seconda piazzaforte pontificia, che avrebbe tagliato ogni collegamento tra lo Stato pontificio e l’Austria, e Perugia-Terni, che avrebbe dato nel contempo protezione alle forze sarde operanti nelle Marche e libero transito verso il meridione. Avendo il generale De la Moricière deciso di rinchiudersi in Ancona e quindi portare tutte le forze operative pontificie nelle Marche, queste furono intercettate ed attaccate dagli uomini di Cialdini. E’ lo scontro di Castelfidardo, prima battaglia per la conquista di Ancona. Battuto De La Moricière sul Musone il 18 Settembre, riunitesi le forze di invasione a ridosso di Ancona sotto il comando diretto di Fanti (24 Settembre 1860), in cooperazione con la flotta agli ordini di Persano, il Cialdini partecipa all’investimento di Ancona, che cadde dopo breve e valorosa resistenza. Proprio questi ultimi avvenimenti della campagna delle Marche e dell’Umbria dimostrano il ruolo subalterno, anche se di tutto rilievo, di Cialdini nelle operazioni del ‘60, che furono condotte con estrema unità e capacità di comando da Fanti. Quella unità di comando che mancherà totalmente sei anni dopo a Custoza e che fu all’origine di tante nostre sventure. Sullo scontro di Castelfidardo si accesero poi violentissime polemiche, avviate da G. Finali, segretario di L. Valerio, polemiche incentrate sulla presenza o meno di Cialdini sul Campo di Battaglia, oggetto di questa nota. Il 3 Ottobre il Re ad Ancona assunse il comando di tutte le forze sarde in marcia verso il Meridione. Cialdini, vinte presso Isernia le ultime resistenze borboniche, dette rigide disposizioni ai suoi soldati da tenersi verso la popolazione ed il 25 ottobre, presso Caserta, incontrò Garibaldi. Un incontro che fu quanto mai cordiale e che gettò le premesse del felice incontro, storico secondo la nostra tradizione, di Teano tra lo stesso Garibaldi e Vittorio Emanuele. Cialdini fu ancora protagonista nel prosieguo delle operazioni, avendo avuto l’incarico di guidare l’assedio di Gaeta. La condotta seguita dal Cialdini in questa circostanza fu improntata alla massima cavalleria e altruismo. Infatti la presenza francese nonché di numerosi osservatori stranieri consigliavano il Nostro ad usare modi quanto mai gentili. Allontanatasi la flotta francese dalle acque antistanti la fortezza, le operazioni poterono continuare anche dal mare e alla metà di febbraio ebbero la loro naturale conclusione. Incaricato di porre l’assedio a Messina, Cialdini, libero da ogni legame diplomatico, non va tanto per il sottile e conquista la cittadella “dopo sei ore di intenso bombardamento”.
Sull’onda della vittoria e l’azione contro i partigiani borbonici.
La cordiale simpatia di Cavour, l’amicizia del Re, nonché la elezione al Parlamento di Torino (VII e VIII Legislatura) fecero di Cialdini una delle personalità più in vista del nuovo regno d’Italia. La sua carriera politica mosse i primi passi nel parlamento subalpino, quando si discusse il problema dell’esercito meridionale. Sirtori e Garibaldi attaccarono in merito la politica governativa riguardo a coloro che avevano portato al Regno le provincie meridionali. In risposta a questa presa di posizione nasce la famosa lettera alla gazzetta di Torino nella quale il Cialdini, interpretando i sentimenti della maggior parte della Ufficialità regolare avanzava una velata condanna ai metodi e forme dell’azione garibaldina; il linguaggio che usò non fu certo diplomatico e nel prosieguo della polemica il Cialdini si avventurò fìno al punto di ridimensionare, seppure maldestramente anche l’impresa dei Mille. Queste iniziative, che videro perplessi anche alcuni esponenti moderati, stavano per aprire una frattura fra governo ed opposizione. Garibaldi intervenne in modo pacato, riportando tutte le discussioni in un alveo accettabile, conscio che il nuovo Regno non aveva bisogno di ulteriori lacerazioni interne. Cialdini evitò un duello, ma le sue idee ebbero modo di manifestarsi in modo concreto nell’incarico di Luogotenente del re per le provincie meridionali. Uno dei problemi del Regno d’Italia era la resistenza che si manifestava nelle provincie meridionali al nuovo ordine sabaudo. Tale resistenza si manifestò via via in modo sempre più virulento, tanto che diede vita a quel fenomeno che la nostra tradizione risorgimentale chiama in senso spregiativo “brigantaggio”, ma che in realtà fu una tardiva reazione di ripristinare il regno Borbonico. Tale resistenza era alimentata da vasti strati della popolazione meridionale in parte nostalgica del vecchio regime e in parte delusa dai provvedimenti dei nuovi governanti. Un primo tentativo, pacifico, di risolvere il problema fu posto in atto dal luogotenente del re G. Ponza dì San martino, che però non diede i frutti sperati. Ricasoli, succeduto al Cavour, pensò di risolvere la questione affidandone la direzione delle provicie meridionali al Cialdini. L’azione del nostro si mosse su due versanti: su quello politico -civile, venendo ad accordi con la sinistra e concentrando nelle sue mani tutti i poteri sia civili che militari; su quello militare adottando una tattica basata sul fatto di far concentrare nelle città il grosso delle forze disponibili e di agganciare ed aggredire le formazioni borboniche, che ispiravano le loro azioni al principio della guerra per bande ed ai canoni della guerriglia, con colonne mobili, in grado di manovrare con velocità e e determinazione. Sul piano politico ottenne l’appoggio della media borghesia e dei volontari e dei democratici in genere; su quello militare, agì praticamente senza controllo di sorta. L’azione militare che il Cialdini pose in atto fu durissima, spietata, non certo degna di nota e da ricordare e che in qualche caso diede luogo anche ad atrocità. Una azione che contribuì non poco ad approfondire il solco che divideva le masse popolari meridionali ai principi unitari e che poi ebbero una ripercussione notevole in quello che ancor oggi è il problema meridionale. L’azione del Cialdìni suscitò perplessità a Torino ed anche la reazione Francese, che provocò il 16 Agosto 1861 le dimissioni di Cialdini da luogotenente, dimissioni che poi furono ritirate. A metà ottobre, l’incaricò ebbe termine e Cialdini rientrò a Torino. Qui riprese il ruolo a lui più congeniale, quello di generale e comandante risoluto, energico, deciso, da utilizzare nei momenti decisivi della vita dello Stato. In questa chiave ebbe l’incarico di “Commissario Straordinario in Sicilia”, (Agosto 1862) non senza aver pubblicamente manifestato la sua opinione in merito alle spinte disgreganti che affioravano nella penisola. “La guerra civile è inevitabile e vi sono rassegnato…” Gli eventi di Aspromonte non lo trovarono protagonista, ma molto si adoperò opponendosi al prosieguo dei processi instaurati contro i garibaldini, schierandosi per l’amnistia contro i condannati a morte, al fine di evitare ulteriori risentimenti. Questo atteggiamento di comprensione nei confronti dei protagonisti minori del fatto di Aspromonte, in parte, dall’ambiente politico torinese fu inteso come un tentativo indiretto di non portare all’attenzione pubblica le responsabilità della monarchia, del governo e del Re in persona. Sul finire del 1862 divenne comandante del Dipartimento Militare di Bologna e due anni dopo, su proposta di Minghetti divenne senatore del regno.
La campagna del 1866.
Pesanti e non marginali le responsabilità del Cialdini negli avvenimenti militari del 1866. Scomparso Fanti nel 1865, mancava fra i generali italiani un vero leader; in più le pesanti interferenze del Re ponevano i maggiori esponenti militari in contrasto tra loro. Ottenuto il comando del IV° Corpo d’Armata, lo stesso che aveva comandato nella campagna del 1860, Cialdini concertò il piano generale di operazioni con il La Marmorma che era il comandante in capo delle forze italiane. Il dualismo La Marmora-Cialdini fu uno dei fattori di debolezza della campagna del 1866. La Marmora non aveva la forza ed il prestigio di imporre il suo pensiero al Cialdini e questi non lo riconosceva come comandante in capo. Nello sconsigliare l’azione “a botta dritta” contro il quadrilatero voluta dal La Marmora, che in verità il 24 giugno intendeva svolgere un’azione di ricognizione in forze per saggiare la presenza nemica, il Cialdini nei fatti divise le forze italiane in due masse, agenti una separata dall’altra.